Mario Adinolfi: Vi racconto le primarie americane

3 Febbraio 2020 Mario Adinolfi
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Il Popolo della Famiglia, Mario Adinolfi

Iowa. Si comincia come ogni quattro anni, si fa nottata per i caucus in Iowa. Le centinaia di allievi che ho avuto all’Università della Politica sanno della mia predilezione per le primarie americane e per l’intero sistema statunitense della selezione delle classi dirigenti, dove un Luigi Di Maio non potrebbe mai essere ministro degli Esteri, una Lucia Azzolina non potrebbe mai occuparsi di Istruzione con la tesi copiata, un Alfonso Bonafede sarebbe spernacchiato da mane a sera se dicesse di essere il responsabile del DoJ (il mitologico Department of Justice). Perché? Perché la selezione dei politici passa attraverso questo meccanismo scarnificante che sono le primarie, da cui non puoi uscire vivo se sei Toninelli. Servono carisma, capacità, tenacia, anima di ferro in grado di sopportare una immane pressione che viene generata da media e avversari (e spesso da media avversari) alla ricerca di qualsiasi falla che possa azzoppare la corsa verso il potere. Sopravvivono in pochi al frullatore delle primarie, i più vedono frantumarsi le loro ambizioni, alcuni la loro immagine pubblica persi, addirittura la loro stessa vita. Le primarie sono un esercizio politicamente crudele e per questo bellissimo. Si comincia stanotte dall’Iowa.

Si tratta del mese terrificante della campagna per le primarie presidenziali: 3 febbraio caucus in Iowa, settimana dopo in New Hampshire fino al 3 marzo in cui il Super Tuesday quando si voterà in molti stati iperpopolosi, dal Texas alla California, comincerà a cristallizzare gli equilibri. Ma l’Iowa dirà già qualcosa di importante: questo Stato americano del Midwest che ha la metà degli abitanti del Lazio spiegherà subito al mondo chi sarà che probabilmente proverà a togliere a Donald Trump lo scettro imperiale che di fatto da decenni è in mano al Commander in Chief della nazione statunitense.

Intendiamoci, le primarie le fanno anche i repubblicani perché tradizione vuole che anche il presidente in carica vi si sottoponga. Donald Trump è dunque sfidato in Iowa dall’ex deputato dell’Illinois Joe Walsh e dall’ex governatore del Massachusetts Bill Weld. Trump li sbaraglierà e a novembre sarà il candidato repubblicano che tenterà di ottenere il secondo mandato alla Casa Bianca, impresa fallita solo da George Bush senior tra i presidenti degli ultimi quarant’anni. Il 27 agosto la convention repubblicana assegnerà a Trump la nomination e sarà solo un grande spot elettorale senza avversari, come il Discorso sullo stato dell’Unione che terrà subito dopo la comunicazione dei dati dei caucus in Iowa, per oscurare sui media l’inevitabile attenzione che si riverserà su chi li vincerà nel campo democratico.

Già, il campo democratico. In Iowa corrono in quattro: Joe Biden, settantasette anni, il vicepresidente di Obama; Bernie Sanders, settantotto anni, senatore del Vermont, leader dell’ala socialista estremista del partito democratico; Elizabeth Warren, settant’anni, senatrice del Massachusetts, meno di sinistra di Sanders e meno centrista di Biden, per questo poco attrattiva forse; Pete Buttigieg, sindaco di South End in Indiana, gay “sposato” e cristiano battista fervente di trentotto anni, un po’ fragile da troppi punti di vista. Poi ci sono altri sei sconosciuti destinati ad essere carta da parati (la meno ignota è la senatrice del Minnesota Amy Klobuchar, aggiungete per completezza di informazione i nomi di: Andrew Young, Deval Patrick, Michael Bennet, Tom Steyer e Tulsi Gabbard). Sullo sfondo però si staglia l’ombra del grande rivale di tutti, che in Iowa e New Hampshire e Nevada ha scelto di non correre, si aggiungerà alla truppa solo il 3 marzo nel Supermartedì, ma ha già messo a correre cento milioni di dollari, undici spesi solamente per uno spot di un minuto trasmesso l’altra sera nell’intervallo del SuperBowl. Si tratta di Michael Bloomberg, ultrasettantenne come Trump, newyorchese come Trump, miliardario come Trump, magnate dei media come Trump, ma molto più basso di Trump che ha già preso a chiamarlo MiniMike (risposta di Bloomberg immediata: “Obeso coi capelli finti” e tabù del bodyshaming rotto subito per la prima volta nel campo democratico).

E ora che vi ho presentato tutti i protagonisti dell’appassionante sfida che terrà incollati gli amanti della vera politica allo svolgimento delle varie puntate, vediamo di capire come funzionano le primarie americane. Intanto, avete preso confidenza con la parola “primarie” perché talvolta vengono organizzate anche in Italia, io stesso ho partecipato a quelle fondative del Partito democratico nel 2007, ero il più giovane dei cinque che concorsero alla segreteria nazionale (per la cronaca arrivai quarto dietro Veltroni, Bindi e Letta). Ecco, le primarie all’italiana sono cialtronate con i cinesi in fila che votano dieci volte, non regolate e non controllate da nessuno, con risultati farlocchi che servono a certificare equilibri di potere prestabiliti. Il Pd italiano le ha ancora nello statuto, ma come si è visto nella recente esperienza ad esempio delle suppletive alla Camera a Roma, se ne è bellamente fregato e ha fatto finta di dimenticarsene, perché il segretario Nicola Zingaretti aveva deciso di assegnare il seggio da deputato all’amico della Federazione giovanile comunista di Roma degli Anni Ottanta, oggi ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. A cui per inciso a Roma noi del Popolo della Famiglia proveremo a dar più che fastidio, il 1 marzo alle suppletive dei quartieri centrali della Capitale, vota PdF. Fine dello spot.

Le primarie all’americana sono primarie serie perché sono regolate per legge, durano cinque mesi e coinvolgono milioni di persone. Sono vere e proprie elezioni che seguono le regole americane, dunque finanziamento libero ma trasparente (di ogni dollaro va dichiarata la provenienza), spesso vince chi è più bravo a fare fund raising. Con un Bloomberg che ha un patrimonio multimiliardario la partita è difficile per tutti, ma Bloomberg in Iowa non corre e i 41 delegati dello Stato (1% del totale degli eletti che sceglieranno il candidato democratico alla presidenza alla convention di agosto) sono dunque a disposizione degli altri. In duemila punti di raccolta si terranno dunque i caucus dell’Iowa, che hanno una procedura diversa dalle primarie negli altri Stati, che sono elezioni tradizionali.

In ognuno dei duemila caucus i rappresentanti dei vari candidati si raggrupperanno nei vari angoli della stanza in cui sii tiene l’assemblea. I candidati che non raggiungeranno il 15% in ogni singolo caucus saranno lasciati liberi di aggregarsi ai candidati più forti e progressivamente si determineranno le percentuali di ciascun candidato, sommando i risultati ottenuti in ognuna delle duemila assemblee. Chi vince parte in testa nelle primarie (queste ordinarie, non con il metodo assembleare dell’Iowa) di martedì prossimo nel New Hampshire. Trump arrivò secondo in Iowa e primo nel New Hampshire, da lì non si è fermato più. La Clinton batté Sanders sia in Iowa che nel New Hampshire e ottenne la nomination democratica e a sua volta fu precedentemente battuta da Obama in Iowa e finì dietro di lui per la nomination 2008, ottenuta da colui che divenne poi il primo presidente americano di colore fregando l’aspirante primo presidente donna.

Insomma, la lezione è: uno staterello con la metà degli abitanti del Lazio determina stanotte gli equilibri politici mondiali assegnando un bel pezzo di Casa Bianca. Trump stravincerà i caucus repubblicani (e in alcuni Stati non si terranno neanche le primarie del Grand Old Party, per testimoniare il sostegno al presidente in carica), vedremo chi vincerà tra i dem e se riuscirà a resistere all’impatto con l’ingresso in campo di Bloomberg. L’attuale Commander in Chief si augura che il vecchio Bernie Sanders la spunti, sarebbe ben felice che i dem scegliessero un socialista che non potrà mai ottenere il consenso della maggioranza degli americani che odiano la sinistra del “tassa e spendi”. Più problematica per Trump potrebbe essere la candidature di Biden, senza carisma ma tranquillizzante. Vedremo cosa decideranno i cittadini americani che parteciperanno attraverso le primarie.

Ricordatevi, occhi aperti su Iowa (tre milioni di abitanti) e New Hampshire (poco più di un milione) che sono Stati che fungono da termometro e in più sono “swinging states”, Stati che non si sa se andranno alla fine a Trump o a chi lo sfiderà. Mentre si sa già che la California è democratica e il Texas è repubblicano, per parlare di due Stati giganteschi. Attenzione anche al Nevada, immenso deserto in cui si staglia Las Vegas, terzo territorio ad andare a primarie e altro swinging state.

La straordinaria partita a Risiko delle primarie americane comincia. La seguiremo insieme e proveremo a farvi innamorare di questa epopea politica che non ha eguali, ogni quadriennio, bella come un’olimpiade o un mondiale di calcio. La politica come dovrebbe essere, per evitare di finire in mano alle Azzolina e ai Bonafede.