Mario Adinolfi: La politica, i soldi e Renzi

28 Novembre 2019 Mario Adinolfi
immagine mancante
Il Popolo della Famiglia, Mario Adinolfi

Diciamolo con chiarezza: attorno alla politica girano da sempre montagne di soldi. Ho avuto modo di attraversare in qualche modo oltre trent’anni di storia dei partiti italiani, guardandoli sempre dall’interno, fino a fare oggi la stessa esperienza di Matteo Renzi: costruirne uno dal nulla. Poiché noi abbiamo fatto il Popolo della Famiglia e lo abbiamo presentato alle elezioni sempre facendo conto solo su forme di autofinanziamento, percepiamo la distanza con chi invece il proprio partito personale se lo lancia dalla Leopolda potendo contare su milioni di euro arrivati chissà come e, soprattutto, chissà perché. Voglio dunque rendere una testimonianza attorno ai meccanismi di funzionamento del rapporto tra la politica e i soldi, perché sono meccanismi cruciali che motivano poi molto di quel che politicamente accade.

Voglio farlo partendo dalla affermazione che Renzi ha probabilmente ragione quando legge l’inchiesta sulla Fondazione Open come qualcosa che la magistratura innesca a seguito delle sue mosse politiche. Ma va ricordato a Renzi che lui stesso non ha avuto scrupolo di servirsi delle inchieste su Savoini e Salvini, dove peraltro il leader leghista non risulta indagato, per dare battaglia politica attorno a presunti finanziamenti russi alla Lega. Ed è inutile raccontare che lo stesso è stato fatto contro Virginia Raggi che specie all’inizio della sua sindacatura non si è certo circondata di personalità specchiate (eufemismo, Raffaele Marra finì subito in galera per corruzione) o quando il presidente grillino del Consiglio comunale di Roma, Marcello De Vito, è stato arrestato per il giro di mazzette di Parnasi. Se poi si passa alla battaglia della magistratura contro Berlusconi si finisce nell’epica, così come anche Bossi deve il decadere della sua stella alla disinvoltura con cui veniva gestita la cassa della Lega. E l’intero sistema di potere della Prima Repubblica è andato a scatafascio quando Tangentopoli ha portato a galla il sistema di illecito finanziamento di cui godevano tutti i partiti. Al crocevia tra politica e soldi insomma è installato un cartello con il teschio e le ossa incrociate: chi tocca i fili muori. Se i fili vengono scoperti. La magistratura dunque svolge un ruolo cruciale ed il timing di certe inchieste non è mai neutro. Porre l’interrogativo sul ruolo che i magistrati intendono svolgere rispetto ai partiti non è atto del tutto peregrino, insomma. Ma i partiti dovrebbero evitare di offrire occasioni alla magistratura per intervenire pesantemente nella dialettica politica. Invece queste occasioni vengono continuamente offerte. Perché?

Nella cosiddetta Prima Repubblica che ho conosciuto da ragazzo la corruzione era diffusissima. I partiti ottenevano soldi pubblici in maniera trasparente, poi ne ottenevano montagne illegalmente dagli imprenditori. Ogni appalto aveva una tassa occulta chiamata tangente, più o meno attorno al dieci per cento del valore, che veniva versata a chi aveva il potere di assegnarlo. Negli Anni Novanta il sistema venne allo scoperto non perché la magistratura improvvisamente se ne accorse, ma perché si crearono le condizioni storiche affinché se ne potesse accorgere. Frutto delle inchieste fu la decapitazione totale dei protagonisti del sistema con suicidi, morti, fughe all’estero. Fu un finale eclatante in cui forse alcuni corrotti pagarono, certamente un sistema marcio fu giustamente distrutto, ma la corruzione nel rapporto tra denaro e politica non fu estirpata.

Per un quarto di secolo la cosiddetta Seconda Repubblica è vissuta di un sistema monstre di finanziamento pubblico ai partiti. Miliardi di euro versati direttamente dalla fiscalità generale (cioè dalle tasse di tutti noi) e nella disponibilità di pochissimi, in pochissimo tempo. Si conoscono bene i guai giudiziari dei leghisti nel versante di centrodestra (i “49 milioni di euro”, i diamanti di Belsito, la laurea del figlio di Bossi) e della Margherita nel versante di centrosinistra (il tesoriere Luigi Lusi con 90 bonifici si appropria di 13 milioni di euro direttamente dalla cassa dei rimborsi elettorali), ma i fatti corruttivi sono una infinità. Le liste bloccate e anche i collegi uninominali “blindati” generano una classe politica di infima qualità, spesso con un grado di formazione medio-basso, non proveniente dalle professioni, dunque con la politica come luogo esclusivo di sostentamento. Ai fiumi di denaro già garantiti agli eletti dagli emolumenti (una legislatura da parlamentare nazionale vale in questo senso 750mila euro per ognuno, anche qualcosa in più da parlamentare europeo, poco meno per i consiglieri regionali) e dai vari benefit pensionistici, oltre ai vitalizi tagliati ma non cancellati per gli eletti fino al 2011, si affianca la possibilità di far pesare il proprio potere politico attraverso il sistema delle nomine nelle controllate dello Stato o direttamente con i provvedimenti legislativi, che possono valere anche miliardi di euro.

Tipica in questo senso è l’involuzione di Gianfranco Fini, che arriva in Parlamento da incorruttibile segretario del Movimento Sociale Italiano nel 1983, sta alla Camera oltre trent’anni addirittura presiedendola nella sua ultima legislatura fino al 2013 quando ormai è un liberal aperto anche alle unioni gay, incassa dunque numerosi milioni di euro solo di emolumenti e benefits, eppure davanti alla possibilità di appropriarsi della famosa “casa di Montecarlo” non riesce a resistere alla tentazione agendo per interposto cognato e con il coinvolgimento dell’imprenditore delle slot machines Francesco Corallo attraverso conti offshore. La casa è stata venduta nel 2015 per 1.3 milioni di euro. Ora l’ex incorruttibile leader missino andrà a processo per riciclaggio, il fiume di denaro messo sotto attenzione dai magistrati vale 85 milioni di euro.

Insomma, anche quelli che si propongono come i più puliti poi posti a contatto con la montagna di denaro che ruota attorno alla politica finiscono per ingolosirsi. I sei partiti che il 4 marzo 2018 sono stati eletti in Parlamento continuano a vivere dei fasti del finanziamento pubblico ai partiti, abrogato però definitivamente nel corso della scorsa legislatura. Dunque siamo quasi alla resa dei conti e per questo in molti si agitano. La Lega ha da spiegare ancora dove sono finiti molti milioni di euro non più rintracciati, campa con i soldi del due per mille, il nuovo sistema che ha sostituito il finanziamento pubblico, riducendolo però drasticamente: se prima si prendevano dieci milioni di rimborsi elettorali ora la Lega ne prende due; il Pd ha elettori più allenati a compilare la relativa casella, dunque arriva a sette. Altri cinque milioni di euro vanno a tutti gli altri partiti rappresentati nelle istituzioni nazionali (Parlamento e regioni) o al Parlamento europeo.

C’è da aggiungere al due per mille (circa 70 milioni di euro a legislatura) i soldi che arrivano ai gruppi parlamentari e qui il gioco è molto serio: una torta da 260 milioni di euro a legislatura, divisa proporzionalmente secondo il numero degli eletti a Camera e Senato. L’operazione di Matteo Renzi che ha sfilato oltre cinquanta parlamentari al Partito democratico per costituire Italia Viva significa insomma aver messo le mani su una decina di milioni di euro che altrimenti sarebbero andati al Pd. Quando tra le cosche si modificano equilibri per valori del genere, scattano le rappresaglie che nel caso di cosche criminali si risolvono a pistolettate, se la modifica degli equilibri è politica intervengono i media e la magistratura. Praticamente quasi sempre. Per questo è meglio non dare occasione di rinvenire ossa scheletriche negli armadi. Perché quando si aprono, quegli armadi, per i politici sono guai.

Il rapporto tra denaro e potere politico è fortemente elettrico e per alcuni politici anche elettrizzante. Fratelli d’Italia ha trasferito da pochi giorni gli uffici a via della Scrofa, nella storica sede almirantiana del Movimento Sociale Italiano, dove ancora ha sede la Fondazione Alleanza nazionale, da cui Giorgia Meloni ha affittato l’ufficio nuovo. La Fondazione An ha in pancia numerosi appartamenti, un patrimonio derivato dal finanziamento pubblico e dal sostegno passato dei militanti. Si deve a quel patrimonio la possibilità per FdI di muovere i primi passi, i radicali di +Europa sono riusciti a farsi dare soldi pubblici per la radio e possono contare su George Soros, Berlusconi è sempre Berlusconi cioè l’uomo più ricco d’Italia, il Pd riesce ancora a prendere sette milioni di euro di due per mille dai suoi diligenti sostenitori ogni anno, il M5S ha il meccanismo dei bonifici degli eletti alla Associazione Rousseau. Ma queste sono le briciole, anche se ci sommiamo i 260 milioni che poi i gruppi parlamentari di spartiscono durante la legislatura.

Il potere vero che genera denari deriva dalle nomine. Facciamo l’esempio più tipico: la Rai. Con la Lega al governo in posizione preponderante, Raiuno tocca alla Lega che ne affida la direzione a Teresa De Santis. Con la Lega fuori dal governo Raiuno cambia direttore e tocca al Pd, con i renziani che giocano cercando di far nominare uno del Pd che però è in realtà ammiccante verso Italia Viva. Perché è importante prendere la direzione di Raiuno? Perché a Raiuno si spendono centinaia di milioni di euro ogni anno. Centinaia di milioni di euro degli 1,61 miliardi di euro che gli italiani versano con il canone, ora direttamente messo in bolletta. Una montagna di denaro che è la politica a indirizzare. Lo stesso avviene nel comparto bancario, in quello energetico, nello strategico comparto industriale più ampiamente inteso.

Così veniamo al punto. Matteo Renzi è, come è noto, molto spregiudicato. I suoi ammiratori lo considerano geniale, i suoi detrattori lo vedono borioso e arrogante. Ora Renzi come tanti prima di lui (fu la questione di Fini, ad esempio, quando provò a costruire il suo smarcamento di Berlusconi, affogando fin da allora nella vicenda “casa di Montecarlo”) ha necessità di costruire una propria indipendenza politica dopo una vita trascorsa in condizione parassitaria, cioè in groppa a politici e partiti già radicati che lo hanno condotto fino al più eclatante dei successi, la tripletta primarie Pd-Presidenza del Consiglio-elezioni europee conquistate in rapida successione tra il 2013 e il 2014. Ora vuole costruirsi una casa ritagliata a propria immagine e somiglianza, tutta propria: ha bisogno di soldi, di tanti soldi. Poiché a questo traguardo pensava da tempo, ha piazzato i suoi amici fidati fin dai tempi del suo governo “dei mille giorni” (come ama farlo chiamare ai giornalisti amici, ne ha molti) in alcuni luoghi cruciali del governo dell’economia. Quando si legge che Alberto Bianchi (avvocato personale di Matteo) da presidente della renzianissima Fondazione Open incassa fatture per incarichi dalla Consip per 756mila euro e anche un posto al consiglio d’amministrazione di Enel, si capisce meglio come si possa poi organizzare con tutto quello sfarzo ogni edizione della Leopolda, sì, in carico alla Fondazione Open. Anche perché la Fondazione poteva contare anche su botte da 800mila euro a volta di finanziamento da Gianfranco Librandi, imprenditore ricco col pallino per la politica, eletto prima in Scelta Civica, poi passato al Pd ora, indovinate un po’, transitato in Italia Viva. Quando lo stesso Bianchi poi prende altri 800mila euro dal Gruppo Toto per una consulenza e ne gira 200mila a Open (e si nota che Toto ottiene in cambio la “spalmata” di un debito con Anas fino al 2031) allora non c’è dubbio che l’inchiesta dei magistrati fiorentini sembra animata da qualcosa di diverso rispetto al “fumus persecutionis”, anche se non è improbabile che alla procura di Firenze lavori qualcuno che non sia immune ai condizionamenti della politica. Ma questo presupposto deve valere sia sulle inchieste dei soldi a Open di Renzi che su quelle dei soldi russi al Metropol in cui si tira in mezzo Salvini o al processo che il grillino De Vito dovrà affrontare dal 3 dicembre con l’accusa di essere stato corrotto dal costruttore Parnasi nella vicenda stadio della Roma. Poi, a presupposto assunto come tale, il politico per sopravvivere deve dimostrare estraneità rispetto ai fatti contestati. Perché se milioni di euro si affastellano attorno a un politico da parte di imprenditori “amici”, poiché in politica l’amicizia non esiste, bisogna capire bene qual è il tornaconto di questi imprenditori che mettono mano al portafoglio in maniera così significativa.

Quando poi il politico coi soldi ci si fa la casa scatta sempre un fastidio in più, perché le persone comuni non hanno la casa a Montecarlo e non hanno neanche l’amico imprenditore che quando ti servono settecentomila euro per dare un anticipo ne trovano uno che usa un’azienda per schermare il finanziamento facendo girare il prestito tramite il conto dell’anziana madre. Renzi non può adirarsi se qualcuno, dunque, gli chiede conto dei soldi che gli ha prestato Riccardo Maestrelli per comprare una villa a Firenze del valore di 1.3 milioni di euro (curioso, lo stesso valore finale di quella finiana a Montecarlo). Anche perché Maestrelli, guardacaso con i familiari tra i finanziatori della Fondazione Open, è stato nominato da Renzi quando era capo del governo come membro del consiglio di amministrazione di Cassa Depositi e Prestiti Immobiliare spa. Quanto vale il patrimonio gestito da CdP Immobiliare? Miliardi di euro. E Renzi le vacanze annuali a Forte dei Marmi dove la fa? Nell’hotel di proprietà dei Maestrelli. Pagando, s’intende: la lezione di Formigoni ha fatto giurisprudenza, su queste quisquilie ti possono fregare e vai in galera, le vacanze meglio pagarsele con tanto di ricevuta conservata. Se ti servono settecentomila euro però, te li fai prestare velocemente in maniera schermata dal conto dell’anziana madre del toscanissimo amico ricco, tanto chi vuoi che sappia chi sia la signora Anna Picchioni. Come l’anziana militante che lasciò in eredità a Alleanza Nazionale la casa di Montecarlo…

Insomma, al crocevia tra denaro e politica è meglio presentarsi senza coni d’ombra e senza essere caduti in pur umane tentazioni, visto il giro vorticoso di miliardi di euro che si finisce a gestire. De Gasperi e Moro e persino il tanto vituperato Andreotti non morirono ricchi, non si comprarono ville dal valore sproporzionato rispetto alle abitazioni degli italiani che avevano voluto governare, sapevano coniugare sostanziale onestà e personale morigeratezza, non andavano al Billionaire di Riad. Questo tratto distintivo della classe dirigente formata dalla guerra si è completamente perso e ora il politico sembra indulgere sempre a una certa sguaiatezza, a sinistra come a destra. Sorprende che rispetto al caso Renzi quelli che hanno passato la vita ad azzannargli la gola, da Salvini a Di Maio, mantengano un imbarazzato silenzio che suona quasi da monito: non affondiamo la lama, ricordatene quando dovrai parlare di soldi russi o di mazzette capitoline.

Noi abbiamo invece abbastanza libertà e, poiché stiamo nella condizione simile a Renzi almeno rispetto all’intenzione di strutturare un partito nato dal nulla, dobbiamo dirgli che chi è causa del suo mal può piangere se stesso e chi di Savoini ferisce di Maestrelli perisce. Sembra aleggiare sullo sfondo la cupa soddisfazione di un Pd che vede il suo ex leader colpito e quasi affondato, si affaccia da più parti una frase che evidentemente Matteo nella sua boria ha sottovalutato. Sì, alla fine è ancora quella, la prenda per quel che è (un monito di fronte al potente) e faccia riaffiorare rapidamente una sincerità di fondo che pare annegata in un mare di bugie e camuffamenti. Altrimenti.

Renzi ci ricorderemo.