Omofobia e Popolo della Famiglia: cosa resta da fare con la legge Zan

10 Giugno 2020 Mario Adinolfi
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, Il Popolo della Famiglia

L’omofobia sta al diritto penale come la corazzata Kotiomkin sta a Fantozzi.

La lettura della proposta di legge Zan – firmata tra l’altro da politici noti come Boschi, Rolfini, Martina, Bersani, Pollastrini, Pezzopane, Lotti, Madia, Fiano, Serracchiani – evidenzia come già a partire dal presupposto che la introduce riveli il suo carattere ideologico: “I fatti di cronaca denunciati da numerosi quotidiani nazionali e locali hanno segnalato l’esponenziale aumento nel numero e nella gravità di atti di violenza nei confronti di persone omosessuali e transessuali. Sono stati messi in luce dagli organi di stampa numerosi eventi violenti, tutte azioni legate a discriminazioni per motivi di orientamento sessuale e identità di genere. Abbiamo assistito a una vera e propria escalation dei crimini d’odio legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere, azioni di violenza inaudita, spesso commessi da gruppi nei confronti di singole persone identificate come omosessuali o di coppie omosessuali, anche nel pieno centro di molte città italiane”.

Questa premessa per nulla argomentata, generica e abbondantemente falsa permette a Zan di costruire un punto d’appoggio –  un’ancora – per invocare la necessità di colmare un clamoroso vuoto normativo: “È pertanto indispensabile e urgente che le Camere approvino questa proposta di legge, volta a introdurre nell’ordinamento italiano una protezione specifica, posto che, come detto, il nostro Paese (in questo isolato nel quadro degli altri ordinamenti occidentali) non dispone di alcuna legge che sanzioni autonomamente le fattispecie di omotransfobia e che aggravi le pene previste in ipotesi di reati determinati dall’orientamento sessuale della vittima”.

A chiarimento di cosa sia l’omotransfobia si cita “una risoluzione del Parlamento europeo sull’omofobia in Europa, risalente al 2006, rimasta finora inascoltata nel nostro ordinamento, oltre che con numerose decisioni rese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Da un lato, la risoluzione richiamata definisce l’omofobia come «una paura e un’avversione irrazionale nei confronti dell’omosessualità e di gay, lesbiche, bisessuali e transessuali (GLBT), basata sul pregiudizio e analoga al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo»; dall’altro, la Corte di Strasburgo ha ribadito più volte la necessità che gli Stati si attivino per tutelare le persone appartenenti alla comunità LGBTI, attraverso una pluralità di misure, tra le quali rientra senza dubbio il contrasto, dal punto di vista penalistico, all’omofobia ed alla transfobia. Ciò chiarisce l’importanza di un intervento legislativo che sanzioni le condotte dettate da intento persecutorio nei confronti di persone omosessuali o transessuali, proprio in dipendenza del loro orientamento sessuale o della loro identità di genere. Dal Parlamento europeo e dal Consiglio d’Europa giunge dunque la sollecitazione a non trattare i crimini d’odio come semplici azioni prive di volontà discriminatoria, circostanza che determinerebbe invece nella popolazione LGBTI la percezione che lo Stato non sia in grado di garantire una adeguata protezione a soggetti più vulnerabili rispetto alla maggioranza della popolazione”.

La proposta di legge si sostanzia nella modifica in senso estensivo degli articoli 604-bis e 604-ter del nostro codice penale che vietano ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi e puniscono chi compie provocazioni o violenze per i medesimi motivi, ai quali, secondo la proposta Zan, andrebbe aggiunto “oppure fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”.

La questione, dal punto di vista squisitamente tecnico, è contraddittoria. Innanzitutto pare di capire che per accertare che qualcuno agisca realmente ottenebrato dalla omotransfobia lo si debba sottoporre a perizia psichiatrica, in secondo luogo perché equiparare il reato di omotransfobia ad altri di matrice chiaramente politica come le discriminazioni etniche e religiose è quantomeno una forzatura. Come si fa ad equiparare una tendenza erotica (che è un fatto personale, soggettivo e privato) a un’appartenenza etnica? Se per gli LGBT poi non si tratta di una tendenza erotica, ma di identità di genere e  di una realtà di natura (per quanto nessun biologo o scienziato abbia mai rischiato di metterci la firma, chissà perché), mi dovrebbero spiegare dove sta la differenza con un obeso, un nano, un disabile, un miope. Non c’è differenza, non c’è risoluzione che tenga: provocazioni e violenze rinetrano nella fattispecie del bullismo o in quanto già previsto dalle leggi vigenti. Non c’è nessun bisogno che si crei una categoria nuova in odore di politica, a meno che il progetto non sia esattamente quello.

E allora ecco che si arriva al dunque. La proposta di legge Zan non punta a prevenire le violenze e le discriminazioni (che in realtà non ci sono), ma a diffondere un’ideologia che, grazie al tappeto rosso steso dalle modifiche al 604, spianano la strada alla propaganda LGBT. La proposta Zan è il piede nella porta che, facendo leva sulla deterrenza e la paura degli oppositori di dover passare sotto le forche caudine della demonizzazione del politicamente corretto, offre il destro per attuare una serie di riforme trasformative della società e della genitorialità lontane anni luce da una prospettiva giusnaturalista.

Per propaganda si intende la manipolazione delle informazioni allo scopo di indurre le persone a ragionare e comportarsi in un modo specifico e funzionale al latore dei messaggi. Non si tratta di una tecnica esclusiva dei regimi totalitari, niente affatto: è prerogativa anche di tutti gli Stati democratici, laddove si tessa una convivenza/convenienza/convergenza tra potere politico, lobby, economia e informazione. Si tratta in pratica di costruire una narrazione coerente facendo ricorso a elementi comunicativi che impressionano bypassando la razionalità e andando a colpire direttamente i centri emotivi e l’inconscio. La propaganda attiva i sensi di colpa, sfrutta il bisogno di conformismo, provoca comportamenti di massa fondati sul rispecchiamento sociale: in pratica è una truffa ai danni dell’intelligenza umana.

Se osserviamo lo stile della propaganda LGBT vediamo che essa opera secondo due schemi.

Il primo è quello dell’esasperazione di un fatto assolutamente eccezionale e unico che desta impressione, scatena emotività, parla alla pancia, evoca paura o pietà: iterando la narrazione con voce e sguardo ispirati, quel fatto scatena l’effetto “alone” e cioè getta ombra su tutto il mondo di riferimento, trasformando un’eccezione nella norma. Luxuria, Parietti, D’Urso – propagandisti LGBT perennemente sovraesposti negli schermi televisivi – adottano questa tecnica. Invitati a parlare sul tema, non argomentano mai: raccontano una storia o un particolare che impressiona (sempre centrato sulla pietà o sulla paura) e poi sentenziano a slogan con una supponenza che non lascia spazio ad alcun confronto costruttivo.

Il secondo schema è quello della minoranza debole, dei cuccioli da proteggere, dei buoni oppressi, dei Calimeri, dei tapini che il mondo rifiuta perché non banalmente omologati. Sono quelli del “love is love”, delle famiglie arcobaleno, del passato tragico da scappati di casa, condannati a vivere in una società che non li accetta, li prevarica, li emargina. Si tratta ovviamente di finto buonismo che brandisce la diversità come arma per imporre rivendicazioni politiche, di una tecnica che non ha niente a che vedere con la ragione o la dimostrazione scientifica: è semplicemente una battaglia comunicativa che tende a rafforzare una cornice dove loro sono i perseguitati e chi non la pensa come loro è un aguzzino. Loro sono il bene, gli altri il male.

Di fronte a questa marea montante e a prescindere dall’esito parlamentare della proposta di legge, chi come il Popolo della Famiglia si oppone all’ideologia LGBT e alla deriva genderista deve agire con accortezza. Se la proposta Zan si configura in effetti come un modo “laterale” per limitare la libertà di espressione facendo leva sul condizionamento dell’opinione pubblica con il supporto concertato dei media e l’uso disinvolto di parole di poco senso, vuol dire che sarà con la stessa moneta che andrà ripagata.

La prima cosa da fare è evitare di abboccare all’amo della provocazione e cadere nella trappola della ghettizzazione. Il Congresso delle famiglie tenutosi a Verona è un esempio clamoroso. I media hanno cominciato due mesi prima a costruire la cornice omofoba, medievale, antistorica distillando con arguzia notiziole e servizi tv in seconda serata dando l’impressione che fosse animato da una cultura repressiva di persone fuori dalla realtà, svalvolate e instabili, che come minimo credono alle streghe. E questa cornice ha funzionato: il Congresso non è servito a nulla, se non a offrire un palcoscenico ad alcuni politici che poi, spenti i riflettori, si sono ben guardati dal proseguire il discorso e compiere atti politici coerenti. Quanto agli organizzatori, ormai hanno il bollino nero: parlano a chi è già convinto, ma non “bucano” il pubblico perché vivono confinati nel ghetto che loro stessi hanno contribuito ingenuamente a creare. Mi dispiace per Gandolfini, Amato e altri: ma è andata così, non hanno ottenuto nulla, sono politicamente out.

Il Popolo della Famiglia, per opera e acume di Mario Adinolfi, è invece sfuggito alla trappola, e negli ultimi tempi va riconosciuto che lo stesso Adinolfi ha fatto molto per scrollarsi di dosso la critica di monotematicità (anch’essa indotta dai porofessionisti dell’informazione). Ma resta il fatto che i suoi avversari si stanno già adoperando per rafforzare questa cornice: ne è prova Open di Mentana, che subito ha ripreso un suo tweet sul tema, imbastendo un taglia e cuci di vecchie e nuove dichiarazioni per sbattere il mostro in prima pagina.

Non prevarranno, e non prevarranno nella misura in cui il Popolo della Famiglia riuscirà a mantenersi distante dalla ghetto-galassia di cui sopra, facendo manifestazioni proprie, esibendo una voce propria, un’identità propria che integra il tema in una prospettiva politica e di governo completa che non possa essere confusa con l’associazionismo o una contro-lobby tradizionalista.

Una buona regola da mettere in atto è quella di non riprendere le parole dell’avversario: questo significherebbe rincorrerlo e regalargli visibilità. Non bisogna fare il suo gioco. Piuttosto bisogna construire una narrazione positiva che rafforzi il buonsenso e la necessità della tutela politica della famiglia naturale, tracciando una rotta chiara che vada oltre gli ostacoli e i tranelli dell’ideologia perché c’è qualcosa di concreto di cui occuparsi: i figli e il loro futuro in un paese prostrato dalla crisi.

Detto questo invito il Popolo della Famiglia a valutare la possibilità di espungere dal proprio logo la scritta “No gender nelle scuole”. Ho già avuto modo di analizzarla in passato: aveva senso quando il PdF è nato (sulla scorta dei successi del Family Day e dei presupposti contestuali del tempo), ma oggi resta un elemento parziale rispetto agli obiettivi del movimento. Non spiega la marca, è più uno slogan di prodotto, che dice qualcosa del PdF, ma non spiega cos’è il PdF: a livello di posizionamento, e tenendo conto della necessità di allargare la base militante e di consenso, offre uno spin che ne limita il potenziale. E in più aiuta i suoi nemici nell’operazione di infoibamento.

La scritta potrebbe essere sostituita dalle parole “Vita, scuola, lavoro”, che unite a “Famiglia” rappresentano i contenitori di tutte le proposte politiche di un movimento valoriale e cristianamente ispirato.