Una lezione dall’After Life

26 Aprile 2020 Mario Adinolfi
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Il Popolo della Famiglia, Mario Adinolfi

Ho incrociato il genio di Ricky Gervais appena sbocciato, quando quasi vent’anni fa si inventò The Office, la più brillante e originale serie della storia televisiva europea. Non era un ragazzino, trovò il successo solo a quarant’anni suonati e nel 2021 ne farà sessanta. E celebrerà il trionfo mondiale della sua ultima serie tv, prodotta da Netflix: After Life. Stanotte ho visto la fine della seconda stagione e alle tre stavo là da solo a gridare al capolavoro.

After Life racconta la vita di un giornalista rotondetto con la barba che lavora in un giornale non di primissimo piano. Capirete che non potevo esimermi dal finire avvinto ad una narrazione del genere. Non vi racconterò la trama, il tema è molto forte e anche doloroso, si cammina sul filo sottilissimo del black humour tipicamente britannico. Gervais ha avuto il coraggio straordinario di scrivere, dirigere e interpretare una commedia (sì, una commedia) che si snoda tutta attorno a tre parole: morte, vita e verità. Non so come gli sia riuscita quest’opera d’arte: parlare di questi che sono i soli temi che mi interessano davvero con una narrazione che è insieme crudelissima, ma lieve, mai consolatoria e anche mai banale. Raramente ho invidiato il talento altrui, ma stavolta m’è capitato davvero di pensare “vorrei essere capace di scrivere così”.

Premetto che Gervais è completamente ateo, ateo militante, se ci dovessimo mai incontrare probabilmente litigheremmo più o meno su tutto. Ma è l’unico intellettuale del mondo occidentale, che trae i suoi denari dallo show business, a cui ho visto scrivere scene da piegarsi in due dalle risate su omofobia e transfobia. Chi mi legge sa che uno dei momenti più leggeri del VLM Tour (il giro di presentazioni di Voglio la mamma che dal 2014 al 2017 mi ha fatto incontrare centomila persone in tutta Italia) era dedicato alla storia del decatleta Bruce Jenner che dopo aver vinto la medaglia d’oro olimpica e aver avuto sei figli da tre mogli diverse, aveva dichiarato di essersi sempre sentito una femmina e per questo aveva vinto il titolo di “donna dell’anno” negli Stati Uniti ormai annegati nell’ideologia Lgbt. Ebbene sempre su Netflix troverete uno spettacolo di Gervais del 2018 che si intitola Humanity in cui venti minuti sono dedicati allo sfottò della follia di Bruce Jenner che ora si fa chiamare Caitlyn Jenner. Così nell’ultima puntata della seconda serie di After Life una delle scene più divertenti è su un cinquantenne sposato (e padre di una adolescente) che definisce “transfobica” la moglie che lo manda a quel paese non riconoscendogli il diritto a “sentirsi una bambina di otto anni” con tanto di parrucca bionda e treccine.

La critica di Gervais a un’umanità impazzita è insieme durissima e leggera. Allo stesso tempo è priva di ogni retorica, riesce a parlare dritta al cuore delle persone. Chi guarda After Life troverà una infinità di temi splendidi: il prendersi cura degli anziani anche nella fase estrema della loro vita, l’amore non rituale per i defunti, come stare vicini agli ultimi accogliendoli sul serio, come rapportarsi con il dolore altrui e con il proprio, quanto decisivo sia il rapporto coniugale nella sua esclusività incapace di infedeltà persino “after life”, perché solo la verità rende la vita sopportabile. Guardavo la serie e mi dicevo: “Abbiamo lasciato la capacità di parlare in maniera così profonda di temi così determinanti ad uno stand up comedian inglese e ateo? Davvero non siamo capaci di generare un linguaggio non pedante e avvolgente in grado di essere attrattivo? Quelli dovrebbero essere i temi nostri”.

Mentre Gervais descriveva il suo universo fatto di prostitute gentili, drogati disperati, postini strambi, vedove intelligenti, coppie in crisi, bambini tristi, ricchi capaci di slanci di umanità, grassoni che fanno innamorare, mogli adorate, infermiere salvifiche, ragazze sensibili, donne perse, uomini devoti alla famiglia e psicologi rivoltanti, all’improvviso davvero ho capito che parlava a me, la sua forza è questa, sembra che parli personalmente a ogni spettatore. Ho finito di vedere la serie con la puntata insieme tragica e catartica della morte e del funerale del padre. Ho guardato l’orologio. Le tre di notte. Del 26 aprile. Il giorno in cui è morto mio padre, quattro anni fa. Mi sono assopito capendo molto di più su quel che significa la sua assenza per me.

Dopo pranzo ho aperto l’email per la solita controllata a messaggi e lagnanze varie. Come dal nulla compare il nome di un amico di papà che mi ha scritto: “Caro Mario non sai quanto ci siamo voluti bene io e il tuo Grande Papà e quanto mi ha aiutato quando all’università sono entrato in crisi. Ho pregato e pianto per lui e Ielma durante la S.Messa virtuale qui al Duomo di Milano. Anche tu mi sei rimasto nel cuore come eri bimbo e la ristrettezze nelle quali avete vissuto nella casa di via Orazio Antinori. Ho frequentato la vostra casa dal 1973 al 1978 anno della mia laurea. Come capita nella vita, non ci siamo visti per anni, quando nel 2006 lo contatto per rivederci e ripartire insieme nella neonata associazione degli ex Alunni della LUISS e da lui mi viene un eco di lontanza e mi invia una mail circostanziata in cui mi scrive di tutte le malattie che gli avevano tolte le forze vitali, e purtroppo non ci siamo più potuti vedere perchè io avevo tanti impegni ed altre problematiche familiari. Tanto mi sento di averti voluto comunicare, un caro abbraccio virtuale per ora. Il tuo amico per sempre”.

After Life mi ha fatto pensare davvero tanto. Siamo in un momento di immenso dolore collettivo, di lutti, di difficoltà estreme anche economiche. La vita sembra essersi fatta più faticosa per molti, forse per tutti. Ma esiste un modo per accumulare un tesoro nel corso di questa esperienza: coltivare la memoria, immergersi nella verità. E non dimenticare mai l’amicizia, il nostro esserci prossimi, aiutando sempre chi si può.

C’è una distanza vera tra me e la visione del mondo di Ricky Gervais che vi suggerisco di approfondire. Nel suo ateismo lui parla sempre di speranza, è la chiave di volta della sua forma di resistenza alla follia che avanza. Io non ho speranza, io da questo punto di vista sono davvero un disperato: la follia e l’insensatezza avanzano e c’è poco da fare, siamo persi. Non ho speranza, ma ho fede. Se rimarremo attaccati alla Verità, presi per mano saremo salvati, dopo aver mostrato da che parte stiamo. Alla fine della terza puntata di After Life (prima serie) si sente un brano di Nick Cave, è la preghiera di un ateo che dice di non credere in un Dio che sappia intervenire nella vita umana, ma allo stesso tempo chiede a Lui che non sia toccato un capello dell’amata, che lei sia direzionata verso le sue braccia. Si intitola Into my arms e racconta tutta la differenza che passa tra avere speranza e avere fede. Da soli non possiamo proteggerci dal dolore, da tutto il catastrofico dolore che sta piovendoci addosso in questo periodo così straordinariamente particolare della storia umana.

Ma non siamo soli e questo ci salva.

(dedicato a papà)