Mario Adinolfi: Erano 47

14 Agosto 2019 Mario Adinolfi
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Il Popolo della Famiglia, Mario Adinolfi

Napoleone compie 250 anni, io più modestamente 48. Sono nato il giorno dell’Assunzione di Maria da due genitori che si sono sposati venti anni esatti dopo il giorno in cui Papa Pio XII proclamò dogma di fede l’Assunzione di Maria, generando oltre me mia sorella quattro anni esatti dopo e ora lei è in cielo con Maria. Insomma, credo nelle cosiddette coincidenze.

Sono immensamente grato. Di tutto. Dei miei primi vent’anni in cui la mia famiglia, la parrocchia salesiana e Testaccio tutta, la scuola dei Fratelli delle Scuole Cristiane e il partito in cui militavo fin da tredicenne hanno provveduto alla mia formazione, imponendomi uno studio continuo e approfondito che lasciato a me stesso non avrei saputo scegliere. Le cosiddette “agenzie educative” funzionavano davvero e Dio quanto erano indispensabili: la demolizione sistematica di famiglia, scuola, Chiesa e partiti politici è all’origine del disastro attuale. Sono grato anche per la mia “età di mezzo”, il mio personale secolo buio, così zeppo di errori (se visti ex post) e di dolore, ma anche di meravigliose scoperte e di conoscenza: coincide con gli Anni Novanta. Poi dal Duemila ho attraversato un ventennio in cui ho vissuto dieci vite, a un’intensità mostruosa, combinando quel che sapete: sono diventato una persona nota grazie alle tv, ho scritto libri che qualcuno di voi ha letto, sono arrivato in Parlamento senza avere paura di lasciare privilegi e poltrona quando sono andati in conflitto con ciò in cui profondamente io credo, ho tenuto iniziative pubbliche anche davanti a centinaia di migliaia di persone, persino giocando a poker mi sono ritrovato ai tavoli finali di livello mondiale. Due decenni bellissimi e anche un po’ logoranti, perché ogni passo è stato compiuto sapendo che sarebbe stato pesato e giudicato da estranei che non potevano sapere.

Erano 47, finiscono i 48 e saremo subito nel quarantanovesimo anno di età. Pochi anni ancora di vita pubblica, massimo cinque o sei, mi restano se Dio vorrà. Poi parlerò solo scrivendo libri, oggetti ormai desueti. Ma ho sempre fatto vanto di essere démodé. Quando tutti mi raccontavano le loro precoci esperienze sessuali io andavo nell’unica scuola solo maschile d’Italia, cementando rapporti d’amicizia virile che durano ancora oggi; quando tutti andavano in discoteca da paninaro o yuppie io andavo in sezione di partito o fino a Caltagirone a studiare Sturzo; quando tutti andavano alla ricerca di storielle deresponsabilizzanti da ventenni io a vent’anni mi sposavo; quando tutti esaltavano contraccezione e aborto come porta al sesso fugace spiegando che il preservativo salvava pure dall’Aids io diventavo papà; quando tutti a Testaccio festeggiavano gli scudetti della Roma, due in mezzo secolo, io celebravo i trionfi della Juve tutti gli anni; quando tutti mi chiedevano di firmare la mia richiesta di ricandidatura in Parlamento con il Pd attraverso le parlamentarie io mi ricordai dei due processi interni subiti per “omofobia”; quando il mio editore e tutti gli altri rifiutarono il manoscritto di Voglio la mamma e mi dissero che non se ne sarebbero vendute neanche cento copie, voi sapete già cosa ho fatto…

Essere démodé è anche scrivere post di settanta righe sui social. Non si fa, è una sgrammaticatura: duecentottanta caratteri massimo, se devi andare lungo devi fare una diretta. Ma è il mio compleanno, questa è la mia pagina e mi faccio ‘sto regalo, che poi è il solito: il fascino della complessità, perché ogni vita è complessa, anche quella che viene semplificatoriamente giudicata ogni dì dai passanti dei social.

Ho visto uno speciale sull’arrivo dell’uomo sulla luna e si diceva che l’estate del 1969 fu l’ultima in cui l’Italia fu davvero spensierata, che poi il 12 dicembre di quell’anno scoppiò la bomba a piazza Fontana e il Paese perse la sua innocenza. Non lo so, può essere. Mio papà mi raccontava per la verità che uscì di notte in accappatoio azzurro a Trastevere nel luglio 1970 con la mia timida mamma australiana che avrebbe sposato di lì a poco, per festeggiare l’Italia che aveva battuto la Germania 4 a 3. Erano felici. L’Italia in cui sono cresciuto io dal 1971 in poi era prima cupa per via del terrorismo, poi per Tangentopoli, per per Berlusconi si e Berlusconi no, con una escalation di rabbia che è quella che viviamo adesso, in cui tutti sembriamo avere la bava alla bocca e la cosa davvero non mi piace. Voglio quell’accappatoio azzurro di papà. Ne ho uno identico, ma voglio la gioia per poterci andare per strada, con Silvia timida che mi dice che sono pazzo, a festeggiare qualcosa davvero tutti insieme.

Nessuno mi toglie dalla testa che è questa profonda cupezza collettiva che coltiviamo da decenni a averci trasformato dal Paese dei quattro figli in media a famiglia, nell’Italia dei sei milioni di aborti che ora vuole pure suicidio assistito e eutanasia per ammazzare gli affaticati. Sapete perché vogliono questa scorciatoia verso la morte? Perché hanno paura di soffrire, temono il dolore. Pensano che in questo modo si possa esorcizzare e quando toccherà a loro morire sarà come dormire.

To die, to sleep… / No more and by a sleep / to say we end the heartache / and the thousand natural shocks / that flesh is heir to

Essere o non essere, Amleto. Nel primo libro che scrissi ormai più di vent’anni fa e che si intitola Email (anagramma di Ielma) spiegai che la nostra generazione “tra essere e non essere ha scelto di essere invisibile”, diventando inconsistente così come è inconsistente una email: impalpabile, fatta di bit, su cui non possono essere versate lacrime. Non ero lontano dal vero.

Continuo a coltivare un’ultima vera e profonda ambizione: provare a scuotere il tempo in cui sono stato condannato a vivere spiegando che sacrificare il principio decisivo della dignità di ogni vita sull’altare dei nuovi principi utilitaristici che sono dietro ogni vaneggiamento sul prevalere della “autodeterminazione” rispetto alle questioni che una volta si sarebbero definite non negoziabili, porta direttamente la nostra società verso un baratro infernale. Battersi per far nascere un bimbo contro ogni presunto diritto a sopprimerlo o a vederlo venduto come merce strappato alla propria madre, spiegare che la paura del dolore fisico va combattuta con investimenti in terapia del dolore non con scorciatoie legislative che aprirebbero alla mattanza degli addolorati, puntellare la famiglia naturale che è il solo luogo dove il soggetto debole riceve una istintiva protezione dall’assalto di chi lo vede come un peso quando invece quella debolezza è ricchezza, sono i tre scopi a cui consegno il tempo che vivrò e nei compleanni prossimi venturi ripeterò questi voti.

Come sempre, la battaglia è controvento. Ma Silvia, le mie tre figlie, mamma Louise sapranno essere pazienti se verranno da qualcuno insultate di riflesso agli insulti a me, se ruberò loro ancora del tempo e dell’attenzione, da dedicare a questa lotta insieme a voi che mi volete bene. Non sono Napoleone, ma anche questa del compleanno condiviso non è una coincidenza. Il motto dell’Imperatore dei francesi era: on s’engage, et puis on voit. Intanto diamo battaglia, poi vedremo.

Con l’aiuto di Cristo e la benevolenza di Maria Assunta ho vissuto quasi mezzo secolo così e così vivrò. Fino alla fine. Con l’accappatoio azzurro sempre là, pronto.