LA RETORICA DEL “PLATA O PLOMO”

6 Settembre 2016 Mario Adinolfi
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Il Popolo della Famiglia, Mario Adinolfi

Su Netflix, la piattaforma di televisione via web e mobile che sta rivoluzionando la tv mondiale, è stata appena rilasciata la seconda serie di “Narcos”, la fiction dedicata al narcotrafficante colombiano Pablo Escobar morto nel 1993 che tanto ispira sceneggiatori e registi di tutto il mondo (è nella sale in questo momento anche un “Escobar” con protagonista Benicio Del Toro). La prima serie di Narcos si apre con un giovane Pablo Escobar che inizia a far crescere i suoi traffici di droga e subisce il controllo di uno dei suoi camion da parte delle forze dell’ordine, che appaiono zelanti. Allora il narcotrafficante detta la sua legge, semplice ma efficace. Li vuole corrompere e mette gli agenti davanti alla scelta: “Plata o plomo”. Denari o piombo. O vi fate corrompere o vi ammazzo. Gli sventurati risposero. E un intero paese, la Colombia, sprofondò prima nella corruzione più terribile, poi nella guerra civile, fino all’eliminazione fisica di Escobar.
Non voglio parlare qui di narcotrafficanti, di Colombia e neanche di serie televisive. Mi colpisce però come la retorica del “plata o plomo” sia diventata dominante. Corruzione o devastazione, le due colonne dell’intrattenimento. Una ricetta vincente. Anche solo dieci anni fa costruire una narrazione così focalizzata sul male sarebbe stato inimmaginabile. In Germania non si producevano fiction sul nazismo o sui terroristi della Raf, in Irlanda sull’Ira o in Italia sulle Brigate Rosse o sulla mafia. Sì, c’era La Piovra, ma la storia era tutta incentrata sul commissario Cattani, l’Italia era innamorata del commissario interpretato da Michele Placido che combatteva la mafia, mia madre pianse davanti finale alla scena in cui il poliziotto veniva ucciso. Gli eroi erano i buoni, siamo cresciuti con “sceneggiati”, allora si chiamavano così, in cui il massimo della trasgressione concessa al protagonista centrale della storia era farsi fregare da un gatto e una volpe per poi essere salvato da un papà ostinato (meraviglioso, il Pinocchio di Monicelli). Il telefilm classico era il poliziesco: i cattivi fanno qualcosa di malvagio, l’investigatore indaga nel quadro fumoso di indizi contraddittori e infine con acume assicura i colpevoli alla giustizia. Fine, vince il bene, la salvezza è sempre dietro l’angolo e il riscatto possibile è nella verità.
Nel mondo al contrario in cui viviamo da qualche anno, alla retorica della salvezza provvidenziale dopo le traversie (sì, c’era molta retorica anche lì, ma con finalità positive), si è scelto di mettere al centro della scena il male e la retorica è diventata dunque quella del “plata o plomo”. La scelta è tra corruzione e devastazione, è imposta dall’eroe centrale che deve essere un assassino incarnazione del male, l’opzione anche per lo spettatore diventa obbligata. Anche lui deve porsi la domanda semplice: “Dovendo fronteggiare il male, mi farei ammazzare o corrompere”. La scelta a favore della corruzione diventa così quasi naturale e sostanzialmente indolore. Non c’è spazio per la speranza in questa narrazione e in questo immaginario. Lo scenario è cupo, la cultura dominante è a tinte fosche e ama i simboli di morte. Guardate le fiction di maggior successo sfornate dai media statunitensi: Breaking Bad (storia di un modesto impiegato che si trasforma in un boss assassino venuto a sapere di avere poco da vivere), Dexter (storia di una serial killer che uccide serial killer), Billions (storia di uno speculatore finanziario senza scrupoli che fa i soldi sui suoi colleghi mentre stanno morendo nelle Torri l’11 settembre), I Borgia addirittura in due versioni (una canadese, una scritta da Neil Jordan con Jeremy Irons a fare Alessandro VI).
Poi c’è Sky che si è specializzata. Titolo delle ultime cinque fiction di maggior successo da parte della tv a pagamento italiana: Romanzo Criminale 1 e 2, Faccia D’Angelo, Gomorra 1 e 2. Dunque la banda della Magliana, la Mala del Brenta, la camorra. Personaggi centrali e idolatrati, tutti assassini, reali o immaginati: il Libanese, il Dandi, il Freddo, il Bufalo, Scrocchiazeppi, Fierolocchio, Felice Maniero, Pietro Savastano, Genny, Malammore, o’ Trac, Ciro l’Immortale. Niente donne, tenute solo per i ruoli marginali o di colore, niente “buoni”. Quei pochi che vengono rappresentati fuori dal contesto criminale vengono sempre ridotti alla scelta archetipica azzeccata da Netflix: “Plata o plomo”. Per chi tifi, per Pietro Savastano che fa sparare in faccia alla figlia di nove anni di Ciro o per Ciro che alla fine spara in faccia a Pietro Savastano? Per la corruzione dell’anima o per la devastazione anche del corpo? Plata o plomo? Scorrono fiumi di denaro in tutte queste fiction, i veri protagonisti sono i soldi, tutti sembrano scegliere “plata”, molti finiscono per ricevere “plomo”. Ma davvero è questa la dicotomia dei nostri tempi da ritrarre con tanta ossessiva ripetitività?
Non è una questione di scelte televisive, ci diranno che anche nel Padrino si rappresentava la mafia ed è stato uno dei film più belli di ogni tempo. Vero, ma le distanze temporali asportavano la narrazione dagli elementi della contemporaneità, consegnandola a un tono da leggenda immateriale, da film appunto. Ora no, ora la fiction viene rappresentata con toni iperrealistici, ti ci trovi in mezzo e sono storie che tutti ricordiamo, ci riguardano direttamente e quando sentiamo che Escobar guadagnava sessanta milioni di dollari al giorno dalla cocaina e più modestamente Felice Maniero faceva colpi rubando centinaia di chili d’oro o picchiava i cambisti del Casinò di Venezia per trarne guadagni a sei zeri, finiamo per trovare logicamente comprensibile perché Ciro finisce per strozzare con le mani proprie la giovane moglie e madre di sua figlia di nove anni: per non mettere a rischio la “plata”. Nella dicotomia costruita da questa folle narrazione senza salvezza appare persino giustificato. C’è una scena in Narcos in cui la madre e la moglie di Escobar discutono di un bomba collocata da Escobar stesso su un aereo civile di linea costata la vita a 107 persone. La madre dice: “Non può essere stato lui”. La figlia, pragmatica e amorevole: “Certo che è stato lui. Ma avrà avuto le sue buone ragioni”. Dissolvenza, nero.
Il 21 ottobre Paolo Sorrentino ci proporrà su Sky la prima puntata del suo The Young Pope, su un Jude Law giovane papa americano che proclama tronfio di non credere in Dio, è circondato dal mellifluo cardinale Voiello che pensa solo ai giochi di potere e da Diane Keaton che indossa la maglietta Like a Virgin. Mi sono sempre chiesto perché i registi italiani di grande cultura che pure hanno del Vaticano una conoscenza diretta certamente più approfondita di quella tutta fenomenologica di un qualsiasi Dan Brown, siano poi così banali da rappresentare il papa sempre come una semplice proiezione dei propri tic. L’incerto Nanni Moretti che non sapeva da che parte tirare il rigore in Palombella Rossa, non sapeva se andare o restare come prete in la Messa è Finita, che voleva l’amore assoluto e poi rinunciava all’amore di Bianca in Bianca, non poteva che rappresentare un papa incerto e da lettino dello psicologo. Così Sorrentino che si sente fico ed un po’ esteta s’è inventato questo papa fico e esteta che fuma come Jep Gambardella e come Jep Gambardella gioca al “ci sono ma non vorrei esserci”. Ma il bene dove sta? Siamo sempre alla dicotomia che va per la maggiore: plata o plomo. Corruzione o devastazione. Sono questi gli strumenti dell’artista per rappresentare la realtà odierna? Solo questi?
No, non sto parlando di televisione. Sto parlando del mondo al contrario. Di Uomini e Donne di Maria de Filippi che da lunedì affiderà il “trono” a un gay. Cambiano il titolo? Lo chiameranno almeno Uomini e uomini?. Non credo, farebbe male alla “plata” e forse anche alla platea. Semplicemente, ci spiegheranno che è normale che l’ex fidanzato di Stefano Dolce (sì, di Dolce e Gabbana) sia alla ricerca dell’omoanima gemella in una trasmissione televisiva per “bisogno d’amore” e non perché farà tanto bene al business di tutti, di Maria de Filippi prima di tutto, chiamata Maria la Sanguinaria, nomignolo da “plomo” anche se qui è soprattutto questione di “plata”. Una quindicina di persone che hanno attraversato i suoi programmi hanno avuto anche seri problemi con la legge, ma sarà senz’altro una sfortunata coincidenza ripetutasi una quindicina di volte, l’ultima volta è successo questa estate un ballerino gay passato dalla sua trasmissione ha ammazzato il compagno, se ne è scritto pochissimo, non una parola dalla Sanguinaria. Plata e plomo.
Nel mondo al contrario il bene non è che soccombe: non c’è. Fanno santa una donna immensa come Madre Teresa di Calcutta che ha passato la vita a lenire le sofferenze dei moribondi e degli ultimi tra gli ultimi? Si dà la stura a una serie di incredibili accuse contro di lei, totalmente inventate, alcune lanciate dal sito Gay.it fondato e diretto fino a poche settimane fa da colui che per conto del presidente del Consiglio si deve occupare di condizionare i social network a favore di Matteo Renzi e della sua campagna per il sì al referendum. Una volta Renzi avrebbe difeso Madre Teresa a mani nude e forse avrebbe trovato persino il coraggio per cacciare il suo collaboratore indegno. Ma erano altri tempi, tempi che precedevano il mondo al contrario.
Io continuo imperterrito comunque a guardarmi le puntate di don Matteo, prodotto da quell’uomo straordinario che ci ha appena lasciato che si chiama Ettore Bernabei, che voleva che il bene ci fosse nel racconto e finché la televisione è stata in mani come le sue, la televisione ha formato gli italiani, mantenendo la barra dritta anche in tempi duri e violenti come quelli passati, dove però si sapeva che i violenti erano il male e chi li combatteva faceva il bene della società. Ah, don Matteo è ancora oggi la fiction che fa registrare i numeri d’ascolto più alti in Italia. Pensate un po’, il bene “rende”. Non è obbligatorio ridurci al “plata o plomo”, siamo tutti molto più di così, la quotidianità e la realtà sono più di così, quattordici milioni di famiglie italiane sanno che la narrazione comprende il bene e ne va alla ricerca, sta ancora al centro delle vite dei più. Riusciranno a far vincere l’individualismo predatorio su cui vorrebbe incentrare la società del ventunesimo secolo, utilizzando l’immaginario prepotente costruito dai prodotti audiovisivi? Può essere. Ma le famiglie resisteranno, forse. Otto milioni ancora guardano la puntata di don Matteo. Pensate un po’, gli addetti ai lavori dicono che è un prodotto “vecchio”, invece è un segno di speranza. Perché qui non abbiamo parlato di televisione. Abbiamo parlato della società che vogliamo costruire per i nostri figli, che non dovranno scegliere tra corruzione e devastazione, potranno ancora coltivare l’idea di libertà insita nel bene e nella giustizia, per rimettere dritto un mondo che sta rotolando al contrario.