ESTIRPARE LE COLONIE DEL MALE

23 Marzo 2016 Mario Adinolfi
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Il Popolo della Famiglia, Mario Adinolfi

Mi è capitato di partecipare a un dibattito televisivo su Raitre, poche ore dopo gli attentati di Bruxelles, invitato a discutere della risposta possibile da dare a tanto male inferto al cuore dell’Europa. Il giorno precedente in una lunga intervista al quotidiano Libero avevo ricevuto molte domande su alcune questioni di cronaca riguardanti la città che mi candido con il Popolo della Famiglia a governare e la mia risposta finale era stata l’impegno a “estirpare le colonie del male”. Questa premessa serve a spiegare che quando ti confronti con l’assurdo, che sia un omicidio efferato di torturatori strafatti di droghe e eccitazione sessuale o un attacco terroristico in larga scala, non si può che partire da un assunto: il male esiste. Il male esiste e va combattuto. Con azioni consapevoli le colonie del male possono essere estirpate, solo questo passaggio definitivo cura la malattia. Qualcuno si affanna a dibattere dei sintomi, ma senza individuare la causa, la malattia progredisce. E la causa è la scristianizzazione della società contemporanea.
Se nel 1942 il laicissimo Benedetto Croce spiegava “perché non possiamo non dirci cristiani”, tre quarti di secolo dopo i suoi emuli scrivono ogni giorno la trattazione in cui ripetono ossessivamente: “Non possiamo dirci cristiani”. Il politically correct obbliga a rimuovere anche solo la citazione della radice giudaico-cristiana dalle carte fondative dell’Europa e ormai le nostre scuole rimuovo i presepi natalizi e impediscono le benedizioni pasquali. La rimozione conseguente del principio di autorità devasta la figura paterna e la figura materna, che ormai sono intercambiabili e sovrapponibili: non possono più i genitori neanche indicare ai figli ciò che è bene e ciò che è male, perché con la scristianizzazione il male e il bene non sono più definibili. E’ di questi giorni la notizia di una protesta a larga scala al liceo Virgilio di Roma, liceo che peraltro conosco bene perché ci si è diplomata mia figlia, perché la preside ha osato far arrestare un allievo che spacciava droga in cortile durante la ricreazione. Il presepio fuori dalla scuola, la benedizione pasquale pure, dentro il pusher. I ragazzi hanno fatto fronte compatto con lo spacciatore contro la preside che ha preteso l’intervento delle forze dell’ordine e anche il presidente del comitato genitori della scuole si è lamentato per le “scene da far west” che hanno portato all’inevitabile arresto del liceale-spacciatore: “Sarebbe stato meglio il dialogo”, ha dichiarato l’ineffabile papà che magari la cannetta alla sera non la disdegna.
Nello spappolamento del principio di autorità e nel collasso della distinzione tra bene e male (“chi sono io per giudicare?”), potete pensare che si stia formando una società virile capace a dare battaglia se invasa da un’ideologia fondamentalista come quella islamica dove ci sono decine di migliaia di persone disposte non solo a uccidere, ma davvero a morire, in nome di un’idea di Dio, per quanto distorta? Loro ammazzano e si ammazzano urlando “Allah è grande”. Noi con cosa rispondiamo? Con il diritto all’apericena, al chemsex, alla dark room, al chill out, all’after?
Da quattordici secoli l’Islam tenta di assoggettare l’Europa ed è sempre stato respinto, talvolta miracolosamente, dall’Europa che da una condizione frantumata improvvisamente sapeva riunirsi attorno alla sua radice e al suo simbolo più alto: la Croce. I filmati raffinati dell’Isis si chiudono sempre con una lama puntata verso Roma, con immagini evocative di piazza San Pietro e del Colosseo, con l’ossessione di definire “crociato” ogni nemico. La guerra dell’Islam all’Europa che si è infranta a Poitiers, con la Reconquista, a Lepanto, a Vienna, che solo nel ventesimo secolo ha visto ritrarsi l’impero Ottomano dalla geografia politica continentale, vive nel ventunesimo secolo questa sua nuova stagione tutta innervata da motivazioni intra-islamiche: è una guerra di potere tra sunniti, sciiti e wahabiti quella che genera la necessità di un attacco alla “molle” Europa cristiana, attacco che per l’Isis ha grande valenza propagandistica, per avvalorarsi come vero motore di un revanscismo islamista che attrae sempre di più fasce di popolazione musulmana che hanno in odio l’occidentale lascivo, opimo e militarmente prepotente. L’unica risposta a questo disegno irrazionalista, che vede l’Europa deporre le armi della sua identità e l’Islam alzare quelle del suo volto più feroce attorniato da bandiere nere, è stata quella del 2006 a Ratisbona offerta da Benedetto XVI tra mille polemiche: il Papa offerse all’Islam l’opportunità di estirpare la colonia del male consolidata al proprio interno, invitando i musulmani a compiere pienamente l’incontro tra fede e ragione, spronando l’Europa ad aiutare (memore dell’esempio offerto dal cristianesimo) l’Islam in questo lavoro.
Ma l’Europa non vuole avere memoria, rifiuta la sua radice, preferisce vederla irrisa e in fondo uccisa. Riconosce come propria libertà fondante solo il diritto all’apericena indisturbato. A giustificazione del folle omicidio di un coetaneo al Collarino, uno dei due assassini ha detto al padre che è andato a trovarlo in carcere: ho ucciso Luca ma in realtà volevo uccidere te. Non serve Freud per comprendere che la negazione della radice produce un fuscello al vento, facilmente devastabile da qualsiasi forza del male.
Noi abbiamo una sola possibilità ora, la stessa indicata da Benedetto a Ratisbona: estirpare le colonie del male o, per dirla nel più pulito linguaggio ratzingeriano, estirpare l’irrazionalità che alberga in ogni assurda violenza inflitta o autoinflitta. L’enciclica Fides et Ratio scritta da San Giovanni Paolo II mentre il millennio era agli sgoccioli, ha indicato una via. Ma proprio come San Giovanni Paolo II fece all’inizio del pontificato, nella Messa di insediamento, la Croce va innalzata come vessillo dell’unica razionalità che salva il mondo. Riguardatela quella scena del 1978 quando Wojtyla, subito dopo aver pronunciato il celebre discorso del “non abbiate paura” che avviò l’operazione che undici anni dopo vide estirpata la colonia del male del comunismo, letteralmente sfugge al protocollo e alla scorta per andare “ad gentes” e tornando indietro dall’incontro fisico con la folla innalza la Croce proprio come fosse una bandiera. Riguardate quella scena, perché in quella scena c’è la razionalità della salvezza per un Occidente cristiano che osserva muto la sua dissoluzione, nell’attesa attonita del prossimo attentato, della prossima strage, del prossimo atto di guerra.
All’incontro televisivo con l’imam mi sono recato “armato”. Silenziosamente, in una scena che a Raitre non s’era mai vista e credo mai più si rivedrà, ho parlato all’autorità religiosa musulmana e all’intellettuale ebreo e agli spettatori con un rosario intrecciato alla mano da cui pendeva un crocifisso piccolo, ma visibile. Non ho inteso farlo in maniera irriguardosa o per lanciare un guanto di sfida. Ho ritenuto necessario però affermare con nettezza chi siamo. Solo ripartendo dalla nostra identità e da una dichiarata volontà comune di estirpare le colonie del male, potremo affrontare il tema spinoso del dialogo e dell’integrazione. Chi pensa però che il dialogo e l’integrazione sono strumenti per completare in realtà la scristianizzazione della società, in particolare della società italiana, sappia che troverà persone, molte persone, rigorosamente ferme nella convinzione che solo attorno alla Croce si può resistere all’avanzata dell’irrazionalità e di questo male che da fronti interni ed esterni rischia di divorarci.