Conterà aver disperatamente creduto

9 Luglio 2020 Mario Adinolfi
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Il Popolo della Famiglia, Mario Adinolfi

Ho ricevuto ieri questa lettera a seguito del po’ di rumore e di letture che l’uscita de Il Grido dei Penultimi inevitabilmente ha provocato. Paola (è il suo vero nome ed è una militante del Popolo della Famiglia) ha osato fare quello che di solito con me non si osa fare: lo dichiaro sempre e ovunque che non mi piace parlare di me, lo scrivo anche nel libro. Di quel che mi circonda, volentieri. Di me, mai. Al limite ricamo attorno a quel che già tutti sanno (o credono di sapere). Paola però ha avuto il merito di porre domande precise, scritte in un ottimo italiano privo di errori, in più ha usato il garbo della reale curiosità. Dunque, ecco le sue domande e di seguito le mie risposte.

Caro Mario,

Venerdì pomeriggio, di ritorno dal lavoro, ho trovato tra la posta il pacchetto con il tuo libro. Lo aspettavo con una certa impazienza. L’ho preso in mano, l’ho sfogliato per curiosità prima di andare a preparare la cena: e l’ho mollato solo dopo aver finito di leggerlo, tutto. Silvia ti ha detto “Forse è il miglior libro”. Concordo con lei, senza forse. E concordo anche con Giovanni, che ha sobriamente e affettuosamente sintetizzato il suo entusiasmo “La penna è il mestiere suo”. Farti la recensione non ci penso proprio, non è mestiere mio, mentre quelle che stanno uscendo sono splendide e rendono giustizia al tuo lavoro. Hai uno sguardo, sulle persone e sulle storie, che sa cogliere l’universale nel particolare, e da pochi essenziali tratti – un barista, i suoi figli, la dedizione quotidiana all’attività di famiglia; oppure quei pochi metri quadri della tua infanzia dove tua mamma moltiplicava lo spazio e nutriva gli affetti – sai misurare il peso di un’epoca, il carico di molti “piccoli” nel mondo, cioè la gente comune diversa e lontana da dotti, medici e sapienti. C’è malinconia nel tuo sguardo, direi disincanto, insieme ad un’energia non comune, una formidabile capacità di analisi e un’impressionante lucidità nel passare dalla critica di un’umanità impazzita all’ascolto del grido silenzioso dei penultimi, dal dolore e la fatica di vivere alla tenerezza dell’aver cura dell’altro come unica via di salvezza. Racconti, di te e dei tuoi, cose delicate e intime, eppure ne fai una testimonianza dai toni minimalisti, pronto a schermirti “racconto questi dettagli personali per dire che siamo tutti fratelli nel dolore”. Con un certo tono perentorio dichiari poi “non ho speranza, ma ho fede”, e questo mi piacerebbe capirlo meglio. Sei un pungente polemista da salotto televisivo, sei un fondatore, sei uno storico, un padre, un outsider “malinconico e buono” (così dice un tuo buon amico). Sfuggi a qualsivoglia tentativo di definizione. Insomma, mi hai incuriosito. Chi è questo brillante e atipico scrittore, da quale silenziosa contemplazione (perché ascoltare è prima di tutto contemplare) ha maturato tanta logica coscienza del tempo che stiamo attraversando? Per questo mi è venuta voglia di farti qualche domanda. Spero che tu possa derogare a quanto affermi, sempre nel libro, “non ho voglia di raccontarvi di me, magari dei miei familiari sì per rendere loro omaggio, ma di me in verità mi piace che si sappia molto poco”. E provo a chiedere.

1. La formazione, il crogiolo in cui si è forgiata la lama affilata della tua penna. Cultura, dice un tale, è “ciò che resta nella memoria quando si è dimenticato tutto”: tu invece non dimentichi praticamente nulla e la tua statura culturale svetta più di quella fisica – e mi pare di averti sentito dire che sei alto m1,93. Mi viene spontaneo chiederti: qual è stata la tua formazione? Hai frequentato, con tanti sacrifici dei tuoi, la scuola dei fratelli delle scuole cristiane. Che cosa ti piaceva, qual è il primo libro per cui hai fatto l’alba? Quali insegnanti ti hanno affascinato, e perché? Come hai attraversato gli anni del liceo, eri un secchione? Andavi alle manifestazioni?

2. Cito da Il grido dei penultimi: “non puoi più fare finta che il dolore dell’altro non esista”, “solo insieme ci si risolleva”. Mi viene in mente l’esperienza del Popolo della Famiglia, che da anni ti mette a stretto confronto con un buon numero di persone, eterogenee per provenienza politica ma per lo più accomunate da una robusta fede cristiana. Avrai ascoltato molte storie, confidenze di padri e madri di famiglia ciascuno con il proprio carico di preoccupazione e di speranza. Che cosa ha significato e che significa oggi per te questa compagnia? Hai insegnato loro molte cose, di politica e non solo, ma c’è qualcosa che hai invece imparato lavorando insieme ai “tuoi” pidieffini?

3. La frase che per me è diventata la cifra di tutta la tua narrazione è stata “solo la verità rende la vita sopportabile”. Molti direbbero probabilmente l’essere amati, altri il servire, o, che so, il godere dei piccoli piaceri della vita. Tu no. La Verità. Sei un massimalista. Hai anche scritto nel tuo blog, il 30 settembre del 2006, che il primo dei 4 pilastri che regolano la tua vita è la Parola. La Parola è il mio alfa e il mio omega. La frase che porterei tatuata sulla pelle, se trovassi accettabile subire la tortura del tatuatore, sarebbe quella che apre il vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”. La Parola è il mio cibo, non solo perché il mio lavoro ruota attorno alle parole tra giornali e libri e blog e radio e tv, ma perché tutta la mia passione è piena di parole, parole che hanno appreso i meccanismi ironici e maieutici di Socrate, raccontati così bene nei dialoghi di Platone.” Tra Parola e parole c’è differenza. Ogni parola reca, credo, in quanto aderente al reale, un principio di verità. Ma solo la Parola è Verità, sottolineo credo, secondo me, perché non è detto che tutti credano lo stesso. C’è una “tua” Parola, non tanto quella che vorresti tatuata sulla pelle come enunciato di principio ma invece quella che risuona in te come calore e luce, ti rivela a te stesso e rende la tua vita sopportabile?

4. Hai anche scritto, ancora sul blog, che “essere genitore è essere parente di Dio”. Era il 2008 e tu, nel classico elenco delle 10 ragioni per cui vale la pena vivere – un giochino simpatico, quello stesso in cui Saviano da Fazio nel 2011 (tu sei sempre avanti!) dichiara leziosamente al primo posto la mozzarella di bufala – hai pudicamente piazzato all’ottavo posto ex aequo il viaggio e l’essere padre. “…all’ottavo il giro della prigione (cioè viaggiare, principalmente verso l’Australia, l’Argentina, gli Stati Uniti e la Francia) guardando i figli crescere (e dunque essere genitore, che è essere parente di dio)”. Curioso, l’essere parenti di Dio l’avrei messo un po’ più su… Oggi rivedresti la graduatoria? (PS “Al primo, vedere tutto questo dove e come va a finire.” Ecco, questa vorrei averla scritta io. Mi ci ritrovo.).

5. Mi piace come sei centrato sull’essenziale. Devo ammettere che mi colpisce come sai rinvenire tracce di senso ovunque siano, anche in una serie televisiva. Riferendoti a Ricky Gervais, autore della serie televisiva After Life (che ovviamente io non conosco) hai scritto che ha avuto il coraggio di scrivere una commedia che si snoda tutta intorno a tre parole “morte, vita e verità”. Più avanti precisi che lui “nel suo ateismo parla sempre di speranza” mentre di te dici “non ho speranza ma ho fede”. Mi stupisce questa frase. In realtà sappiamo che fede e speranza, così come l’amore, sono doni di Dio, tecnicamente si chiamano virtù teologali, e non siamo noi a procurarcele, come don Abbondio non poteva darsi da sé il coraggio. Leggo subito dopo che “presi per mano saremo salvati” e questo probabilmente dovrebbe schiarirmi le idee. Lo dicevo all’inizio, vorrei capire meglio: perché questa speranza così rimpicciolita a parole, mentre in realtà tutto il libro è chiaramente, al netto della malinconia e dell’analisi spietata di questo secolo o forse proprio per questo, un forte grido di speranza?

Perdona questa iniziativa stramba di rivolgerti delle domande così, per lettera. A volte capita che mi vengano idee insolite, ma le accantono prontamente avendo ancora un certo senso del ridicolo. Stavolta ho deciso di seguire l’ispirazione ed azzardare la figuraccia clamorosa rischiando di passare per una che pretende di poter discettare di questioni serie, cosa che non ritengo mi appartenga, e spero che tu non la consideri troppo sciocca o inutile. Se vorrai rispondere, ne sarò davvero onorata.

Con stima,

Paola P.

Cara Paola,

grazie intanto per l’immeritata attenzione. Cercherò di rispondere alle tue cinque domande brevemente.

1. L’immaginario forsennato e il desiderio del viaggio li devo a Emilio Salgari; credo di aver letto tutti i suoi romanzi nell’estate in cui ho compiuto sei anni, a Sperlonga. L’estate successiva l’incredulo edicolante della località più bella del litorale laziale suggerì a questo strano bambino l’approccio con la storia vera, soprattutto perché i volumi della Storia d’Italia di Indro Montanelli (e Cervi e Gervaso) in versione Bur (biblioteca universale Rizzoli) erano una cinquantina e il venditore di giornali pregustò l’immediato guadagno. E insomma a sette anni in ottanta giorni a Sperlonga nel 1978 mi lessi uno di quei libretti al giorno. Ebbi subito chiaro cosa volevo fare nella vita. Tutto il resto, la scuola cattolica e la scelta partitica (fondamentale agenzia educativa, come la Chiesa) già a 13 anni, venne di conseguenza. Margherite Yourcenar, Samuel Beckett, Luigi Pirandello, Albert Camus e Eduardo De Filippo hanno aggiunto tecnica e qualche spezia ad una capacità di impastare che mi è stata donata come talento. Ero molto bravo a scuola, mi piaceva studiare. Ne sapevo spesso più dei professori e la cosa costruiva conflitti. Il prof di filosofia non mi amava, mi considerava un manipolatore di coscienze, accusa che mi insegue da decenni. Credo, sostanzialmente, falsa. Più banalmente, eravamo alla storia dei due galli nel pollaio. Sono cresciuto culturalmente è umanamente più per conflitto che per imitazione. Anche confliggendo coi miei genitori, lasciai casa dopo il liceo e un anno in cui mi mandarono a far disastri a Giurisprudenza alla Luiss. Non faceva per me. Da allora, ho mantenuto me stesso e le persone che dipendono da me solo coi proventi del mio lavoro. La formazione definitiva l’ho ricevuta dovendo far quadrare il pranzo con la cena a poco più di vent’anni con moglie e figlia. La strada è utile quanto l’università. La laurea in Storia l’ho presa guardando con compatimento i ragazzini che tremavano prima di ogni esame.

2. Nel Popolo della Famiglia sono tutti, o quasi, migliori di me. Davvero è un gruppo di brave persone, non riesco a vedere i loro difetti, vedo solo le ingenuità. Per questo, pur sollecitato, non ho mai cacciato nessuno dal PdF. Riesco a capire che ho qualcosa da imparare da ognuno.

3. Credo fermamente nell’esistenza della Verità e del suo essere conoscibile, perché rivelata. Non sono un bravo cristiano, sono manchevole da mille punti di vista. Ma ho una fede molto solida. La parola che mi tatuerei (se costretto con una pistola alla tempia, io odio i tatuaggi) è: credo. Racchiude bene il senso delle parole, pure troppe e alcune inutili, che scrivevo anni fa e che tu hai ben recuperato.

4. Viaggiare mi piace sempre moltissimo, ti sto rispondendo mentre sto in viaggio. Quando scrissi quell’ex aequo ero papà solo di Livia. L’arrivo di Clara e soprattutto di Joanna Benedetta mi hanno trasformato in un altro tipo di padre. Ma direi che le definizione di allora la confermo e forse pure l’ex aequo.

5. Io sono tecnicamente un disperato, vedo il piano inclinato e lo racconto nei miei libri, vedo lo scivolare verso il baratro. Mi batto, certo, al limite stesso delle mie forze e pagando ogni prezzo che c’è da pagare. Ma non sono così stupido da pensare che il mio personale sforzo possa interrompere dinamiche che hanno spinte propulsive gigantesche. Non ho speranza, non credo che apriremo la testa di chi non vuol capire ed è inchiodato a questo nuovo Stato etico dei senza morale. Ma ho fede. Sono certo che questo scenario in cui in particolare l’Italia si è ridotta a “un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte, dominato da una colorata frociaggine” (citazione da Boris, altra serie televisiva decisiva per la mia formazione culturale) sia destinato a prevalere, nel breve periodo. La fede mi dice che se così sarà, dovrò saperlo accettare. Battermi fino in fondo affinché non accada, spes contra spem. Ma se accadrà, ci sarà un motivo e attiene al percorso che per noi è imperscrutabile. Alla fine dei tempi, comunque, non prevarranno. E conterà quello che avremo fatto, il niente che avremo lasciato d’intentato, la passione e l’intelligenza con le quali avremo combattuto. Conterà aver disperatamente creduto, in un mondo di increduli. Ciao, Paola.