Sono spesso ospite delle sue trasmissioni, ma non siamo amici. Per mio stile “ruvido” in trent’anni di partecipazione al circo televisivo ho sempre mantenuto una regola igienica: non costruire mai un contesto confidenziale con i “padroni del vapore”, cioè con autori e conduttori. Mi sentirei meno libero e io vado in tv solo se posso dire con chiarezza ciò che voglio, il resto non m’interessa. Sono poi del tutto allergico al cosiddetto “dopoteatro”, cioè la vita sociale che fa seguito ad una trasmissione televisiva, dove magari ci si scanna per poi finire la serata a cena insieme e tutto si trasforma in una per me insopportabile marcia trionfale dell’ipocrisia. È una pratica necessaria se vuoi far parte “del giro”. Ma io non voglio, così mi picco di farne a meno. Saluto sempre tutti con cortesia, arrivo in studio all’ultimo minuto perché non voglio trucco e parrucco (e, lo so, si vede e quante volte mi avete rimproverato, ma il mio stile è fregarmene dello stile, ascolta quello che ho da dire o cambia canale), appena finito scappo da una porticina di servizio. Sono stato ospite seriale di Maurizio Costanzo, Michele Santoro, Giuliano Ferrara, Myrta Merlino, Barbara D’Urso, Federica Panicucci, Corrado Formigli, Lilli Gruber, Giuseppe Brindisi, Francesco Vecchi, Massimo Giletti, Monica Setta, Gianluigi Paragone, Luca Telese, David Parenzo, Giuseppe Cruciani, Aldo Biscardi, Andrea Pezzi, Marco Liorni, Bruno Vespa, Andrea Pancani, Ilaria D’Amico, Massimo Giannini, Nicola Porro e tanti altri: non credo di essermi mai scattato un selfie in studio con nessuno di loro. Esistono le registrazioni di quanto ho detto nei loro programmi. Niente di più, niente di meno.
Con Paolo Del Debbio ho collaborato da opinionista a molti programmi da lui condotti: Quinta Colonna, Dalla vostra parte, Dritto e Rovescio. Quest’ultimo è attualmente il talk show d’informazione che registra il numero di telespettatori più alto dell’intera televisione commerciale. Non so come abbia fatto Paolo a trovare il tempo per scrivere un libro ma, complice Aldo Cazzullo che l’ha raccontato intervistandolo in una paginata del Corriere della Sera, ho cercato io il tempo per leggerlo. Ed è stata una meravigliosa sorpresa. Badate bene, il lungo elenco che ho proposto sopra è di conduttori televisivi che con rarissime eccezioni hanno scritto libri a vagonate. Per contiguità lavorativa li ho sfogliati quasi tutti ed è stato tempo perso. Sempre. E più di lignaggio sono i conduttori, più il libro è pretenzioso e noioso.
Questo “Le 10 cose che ho imparato dalla vita” è invece un miracolo. Vengo considerato un duro che fa fatica ad esternare emozioni, ma Del Debbio con le sue pagine mi ha fatto ridere e piangere. I suoi piccoli ritratti di personaggi da bar e da paese, del suo paesello in provincia di Lucca in cui è nato e cresciuto, sono così carichi di umanità da costruire una galleria che pare quella di un pittore impressionista francese: poche pennellate, ma l’essenza è colta e riverberata nei nostri occhi. Il racconto, che non è pienamente autobiografico ma procede a sbalzi con l’attitudine dello scultore che “toglie marmo” per far apparire la figura, è così denso che hai l’impressione di non leggere mai una pagina inutile. Alla macellaia corpulenta che emette sonore flatulenze sono dedicate righe che hanno insieme le radici dell’Angiolieri e dell’Alighieri: umanità dissacrata ma senza carico di disprezzo, una risata vien fuori di pancia priva d’ineleganza.
Ma due sono i cardini del libro, che lo rendono secondo me davvero imperdibile: i racconti di famiglia e le pagine su Dio, sulla fede, sul rapporto tra immanenza e trascendenza. Sapevo della formazione seminariale di Del Debbio, in studio quando andiamo in onda mi sono sempre accorto che tiene un registro popolare per scelta stilistica, ma volendo avrebbe tutti gli strumenti per volare molto in alto. Durante l’ultima puntata del 2021 ho citato la Fides et Ratio e lui subito ha proposto la traduzione del latino: “Fede e Ragione, non devi mai dare nulla per scontato”. Una buona lezione, ha ragione. Il libro racconta i suoi anni in seminario, l’inquietudine che l’ha portato poi a uscirne, ma la mole formativa che ormai s’era impressa in lui, indelebile. A 17 anni aveva già letto e meditato i 35 volumi della Summa Theologica di San Tommaso d’Aquino e chi ha quel tipo di formazione non la dimentica anche perché accompagnata a una fede schietta, popolare, fatta di adorazione sacramentale e processioni di paese nella certezza che senza la trascendenza si finisce per sbattere al muro, come scrive citando l’esistenzialista cristiano Karl Jaspers. Un intero capitolo di un libro dedicato a Dio, un altro ai filosofi dell’assurdo come Sartre, Camus e Beckett, quasi un match di tennis su vette altissime fino a scoprirlo capace di interpretare da diciottenne L’ultimo nastro di Krapp, opera teatrale colossale proprio di Samuel Beckett. Se giochi a palla con San Tommaso e Beckett, il tocco non può che uscire fuori raffinato.
Lo si capisce bene nelle pagine dedicate alla vita della sua famiglia, descritta con precisione definitiva. Spicca su tutti l’esistenza del papà Velio, classe 1922, deportato in Germania in campo dì concentramento e capace di tornare a casa percorrendo a piedi gli ultimi quattrocento chilometri da Verona a casa pur di riunirsi ai figli e alla moglie, per la quale è stato l’unico uomo: umile, quasi povero, ma sempre dignitoso ed elegante. Morto giovane a cinquantasei anni, con Paolo a sentirsi sulle spalle la responsabilità di aiutare la famiglia facendo il cameriere o, appunto, l’aiutante in una macelleria. Ma sono anche le pagine di dettaglio a commuovere, come quella in cui una vecchia zia sempre dura e di poche parole viene vista da Paolo in lacrime mentre la sua sorellina spegne allegra le candeline della torta dei dodici anni. Alla zia tornò in mente che a dodici anni venne mandata a lavorare alla filanda e la sua gioventù venne cancellata. C’è Del Debbio che va in onda alla conduzione di Mattino Cinque anche dopo aver ricevuto la telefonata della morte della madre e Del Debbio che racconta nelle pagine finali la gioia assoluta per la nascita delle sue figlie, con grande semplicità. C’è l’uomo e c’è la sua anima in questo libro. C’è la vicenda della scrittura del programma politico di Forza Italia alla fondazione nel 1994, c’è la stagione da assessore a Milano, c’è il rapporto stretto con Fedele Confalonieri e una bella definizione della capacità di avere “equilibrio”, c’è Silvio Berlusconi e un pezzo della storia d’Italia, ma resta tutto sullo sfondo.
Al centro ci sono “Le 10 cose che ho imparato dalla vita” e mai titolo di un libro fu più azzeccato. Ci sono nominati tutti i suoi collaboratori più stretti con una citazione particolare per Marcello Vinonuovo che lo sostituì in una conduzione di Dritto e Rovescio in cui Paolo ebbe un malore e dovette accorrere un’ambulanza per ricoverarlo al San Raffaele (sì, c’ero anche io in quella puntata, ricordo il panico). Sono grato a Paolo Del Debbio per averci regalato questo testo. Ho respirato a pieni polmoni mentre citava Soren Kierkegaard o il Mito di Sisifo. Sulla lapide di mia sorella, come qualcuno sa, ci sono le quattro parole con cui si chiude quel meraviglioso testo di Albert Camus. Bisogna immaginare Sisifo felice. Imbattersi in Soldino, nelle prime pagine descrittive del borgo natio, aiuta a spiegare quella frase come quando si attraversano quelle del volontariato svolto da Del Debbio al fianco dei disabili gravi. Bisogna immaginare Sisifo felice e per capirlo bisogna guardare in volto Soldino. Scoprire chi sia leggendo Del Debbio sarà per voi una gioia. Non negatevela, ormai è raro leggere un libro e pensare che ne sia valsa la pena.