La D’Urso e la narrazione sradicata

26 Febbraio 2021 Mario Adinolfi
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, , Il Popolo della Famiglia, Mario Adinolfi

Tutti a prendersela con Barbara D’Urso, io ci ho lavorato a lungo fino a rompere platealmente in una clamorosa diretta in cui mi alzai e me ne andai. Ebbene, la D’Urso ha procurato a Mediaset montagne di quattrini, semplificando la formula del talk show, per decenni rappresentata dal duopolio Maurizio Costanzo-Michele Santoro. Il primo la prendeva più sul versante dell’intrattenimento con l’orchestrina di Demo Morselli, i personaggi spettacolari perché capaci di fare qualcosa (da Mastandrea a Sgarbi, da Iachetti a Mughini), il pubblico plaudente “dal teatro Parioli in Roma”; il secondo era quello dell’informazione hard, militante, giornalisticamente capace di mettersi al centro del dibattito politico addirittura diventando questione politica essa stessa, la propria libertà di esistere.

Silvio Berlusconi proprietario delle reti allora Finivest era il perno dell’intero sistema: era l’editore liberale di Maurizio Costanzo (che non votava Forza Italia e ci teneva a farlo sapere) oltre che l’antagonista per antonomasia di Michele Santoro (togliendosi però la soddisfazione di coprirlo di soldi per una trasmissione che finì su Italia Uno intitolata Moby Dick). Il plot narrativo non poteva prescindere da quell’Italia Anni Novanta che aveva grandi energie da esprimere (pensate al campionato di serie A, dove giravano i più forti del mondo anche dopo il decennio magico dei Maradona e dei Platini) e forse anche qualcosa da dire. Le divisioni politiche avevano un senso ed era impensabile vedere Forza Italia e Alleanza nazionale allearsi con Pds e Rifondazione comunista. C’erano delle radici che motivavano una narrazione, non una narrazione sradicata che poteva inventare di tutto.

Il XXI secolo ha pensionato tutto questo e il contesto televisivo ha anticipato quel che poi sarebbe accaduto in altri e più decisivi ambiti della società. La narrazione complessa veniva intaccata da una narrazione uniforme e standardizzata che cancellava qualsiasi dimensione autoriale in nome della ripetitività del “format”. Tutta la tv del XXI secolo è una tv fatta da format tutti uguali in ogni parte del mondo. Non c’è più il quiz “sartoriale” firmato Mike Bongiorno o il varietà incarnato dalle capacità di Pippo Baudo, di Renzo Arbore, di Corrado, di Raimondo Vianello. Esiste il format (il primo, non a caso del 1999, il Grande Fratello) che è replicabile all’infinito e, soprattutto, costa poco sia in termini economici che di creatività degli autori, creatività pericolosa sempre in termini di libertà collettiva.

È in questo contesto che si afferma Barbara D’Urso. I canali non sono più quelli di Fininvest di Silvio Berlusconi, ma siamo nella Mediaset di Piersilvio dove contano solo i numeri. Il talk show diventa lo strumento principe della nuova tv formattizzata, ma vengono mandate al macero sia le formule informative che quelle di puro intrattenimento, approdando a quella dimensione vuota che è l’infotainement. L’informazione viene via via sempre più semplificata e serve a intrattenere, né più né meno della pagina di commento delle performances di Zorzi e di Dayane all’interno della casa del Grande Fratello. E per far questo la professionista perfetta è Barbara D’Urso, formata anche lei alla scuola del Partito comunista ma ormai da decenni regina del salotto televisivo che non ha bisogno se non di lei, qualsiasi ospite affoga nel nulla che ha attorno e che è da lei sovrastato, come è capitato all’ipnotizzato Nicola Zingaretti. Questo abbatte i costi della produzione televisiva che diventano così quasi irrisori: non ci sono Stars, non ci sono cachet da pagare, c’è solo lei, Barbara, che ti offre di finire nel suo cono di luce e tu devi solo ringraziare. E infatti Zingaretti ha ringraziato. Cosa ha detto il segretario del Pd dalla D’Urso? Nessuno lo sa, nessuno ha contestato le sue parole, nessuno si è accorto minimamente di cosa abbia detto. Perché dalla D’Urso è tutto indistinto e inutile chiacchiericcio schiacciato al ribasso, masticato dal tempo inutile della narrazione sradicata. Ma bisogna saperlo fare. E la D’Urso sa farlo benissimo. Intervista a Zingaretti e oplà ora parliamo della povera Francesca Cipriani che non trova il fidanzato nonostante l’ottava di reggiseno appena tagliandata dal chirurgo plastico.
Leggo che ad aprile il live serale della D’Urso che spadroneggia ormai da due anni sarà sostituito da un programma di Paolo Bonolis, che prova a immettere idee nella tradizione del varietà ma poi si ritrova sempre a fare le scenette con Luca Laurenti. Mediaset fa finta di cedere a qualche segno di logoramento negli ascolti, ma sarà solo una pausa. Ormai Piersilvio di Barbara D’Urso non può fare a meno, perché interpreta l’Italia nelle sue corde più profonde, l’Italia che ha smesso di pensare e prova a trovare rifugio dalla sua disperazione mettendosi a recitare. Per quell’Italia ottenere una poltroncina bianca nel salotto della D’Urso è il premio di una vita. Io lo so perché per anni quella poltroncina è stata mia e dopo tre decenni di televisione posso dire che la notorietà che mi ha dato andare due volte a settimana dalla D’Urso non me l’ha data nessun’altra frequentazione di programmi del piccolo schermo.

Mi auguro che l’Italia sappia liberarsi da questo modo superficiale e stupido di fare infotainment, perché sono convinto che esistano altri modi più adeguati per informare e intrattenere il pubblico tramite quella scatola magica che è la televisione. Ho imparato il concetto di inclusività guardando Orzowei, non ascoltando le prediche false di Luxuria; mi sono innamorato per la prima volta sognandomi Sandokan che si batte per la Perla di Labuan non seguendo la love story tra Gabriel Garko e Eva Grimaldi; ho deciso che avrei fatto il giornalista facendo tardi con la Notte della Repubblica di Sergio Zavoli e sì ho mosso i miei primi passi in tv da ospite del Maurizio Costanzo Show e de Il Rosso e il Nero. La televisione può essere un grande strumento di conoscenza e approfondimento, spero che si torni al tempo della narrazione radicata e, perché no, del servizio pubblico radiotelevisivo capace di opporre allo schiacciamento qualitativo dove impera il calcolo dei costi, una proposta innovativa e fantasiosa che non rinunci a costruire attraverso la tv qualche programma memorabile che ci faccia dire che non tutto deve per forza essere Barbara D’Urso, liberando anche lei da quella maschera che la sua indubbia professionalità l’ha costretta ad indossare ogni giorno. Sarei curioso di vederla misurata su altre corde, con altri autori, senza essere obbligata a recitare un’empatia che non prova, consapevole come non può non essere di produrre immondizia in cui affogano le paure degli italiani e a cui solo un Nicola Zingaretti con la sua nota scarsa perspicacia può offrire un ringraziamento.