Mario Adinolfi: un anno vissuto pericolosamente

5 Marzo 2019 Mario Adinolfi
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Il Popolo della Famiglia, Mario Adinolfi

I risultati delle elezioni del 4 marzo 2018 innescarono secondo molti una “rivoluzione”. In realtà non fu il dato elettorale in sé a essere rivoluzionario: i cittadini votarono per Renzi più che per Salvini (pochi se lo ricordano, ma il Pd prese più voti della Lega il 4 marzo), Berlusconi aveva ancora un solido 15%, la sorpresa del M5S al 32% pareva sterilizzabile dal dogma grillino “mai alleanze con nessuno”. La vera rivoluzione dunque non fu quella del 4 marzo, ma la mossa geniale di Matteo Salvini: smarcarsi da Silvio Berlusconi e accettare un ruolo apparentemente subalterno in un governo a trazione pentastellata, prendendosi in sostanza solo il ministero dell’Interno, quello in cui Alfano per capirci aveva costruito la sua dissoluzione personale e politica.

L’atto “rivoluzionario” partorito dalle elezioni di un anno fa è, insomma, il governo gialloverde. Solo il genio italico poteva far arrivare ad un punto di equilibrio dove un premier non eletto, sconosciuto alla totalità degli italiani, avrebbe fatto da collante a due forze che non solo erano antitetiche ma avevano fatto la campagna elettorale contro i presidenti del Consiglio “non eletti” dei governi precedenti (l’ultimo premier arrivato a Palazzo Chigi come emanazione diretta delle elezioni fu Berlusconi nel 2008, undici anni fa, è sempre bene ricordarlo).

Nell’anno vissuto pericolosamente che ci conduce al tornante della campagna elettorale per le europee del 26 maggio alcune novità hanno davvero rivoluzionato il quadro. Salvini con una mossa a costo zero (il contrastatissimo ma assai profittevole “chiudete i porti”) ha preso centralità e ha letteralmente raddoppiato i suoi voti. Ha vinto sei elezioni locali consecutive (Friuli, Trento, Bolzano, Molise, Abruzzo, Sardegna) sempre in coalizione con il centrodestra ma tutte le volte ha voluto rimarcare il suo distacco da Berlusconi e Forza Italia fino a proclamare dopo le elezioni sarde: “Non tornerò mai con il centrodestra”.

Questa frattura definitiva non è stata adeguatamente sottolineata, ma disegna il vero scenario “rivoluzionario” prossimo venturo: Salvini punta ad un totem del fu Pd, quella che Veltroni definì la “vocazione maggioritaria”, paradossalmente proprio nei giorni in cui il Pd vi rinunzia definitivamente, eleggendo quel Nicola Zingaretti che farà annegare la sempre più fragile identità piddina nel “cartello di forze” che andrà dai tecnocrati alla Calenda fino a Grasso e Bersani, con un Pd architrave sempre più simile al Pds, laicista e radicale nella sua piattaforma politica. Renzi ottenne il 41% alle europee del 2014 e provò a monetizzarlo addirittura con la cucitura di un sistema costituzionale adattato ai suoi bisogni: una sola Camera ridotta a un simil consiglio comunale di Firenze di cui lui fosse sindaco dai poteri incontrastabili. Renzi è stato fregato dalla sua hybris, la tracotanza venne punita il 4 dicembre 2016 al referendum, perché non puoi costruire un partito della nazione contro la nazione, soprattutto non puoi dire di aver “giurato sulla Costituzione, non sul Vangelo” avendo in realtà tradito questo e quella. In una recente trasmissione televisiva evidentemente rammentando il nostro striscione “Renzi ci ricorderemo”, l’ex premier si è lamentato di alcuni cattolici che gliela avrebbero “fatta pagare”. Pensava a noi e siamo ben lieti di aver ottenuto dai suoi errori il giusto prezzo: la fine della sua rilevanza politica, ceralaccata ora con l’elezione di Zingaretti alla segreteria che ha fretta di andare a elezioni anticipate per de-renzizzare i gruppi parlamentari.

Salvini ha studiato con attenzione la lezione di Renzi. Se il 26 maggio dovesse ottenere dalle europee un livello di consenso sufficiente per poter puntare alla vittoria alle politiche senza dover ritornare da Berlusconi, le elezioni anticipate diventerebbero solo una questione di data. Il governo Conte, in questo scenario, non mangerà il panettone. L’asticella è fissata al 35%. Se la Lega dovesse superare questo livello di consenso il 26 maggio potrebbe pensare ad una coalizione con il partito satellite Fratelli d’Italia (assicurando a Giorgia Meloni la poltrona di sindaco di Roma nel 2020) per ottenere la maggioranza assoluta alle elezioni politiche anticipate.

Il 26 maggio si scongelerà anche molta parte del voto dei cattolici praticanti, che il 4 marzo si sono orientati in maggioranza su Pd, M5S e Forza Italia. Su sette milioni di persone che vanno a messa tutte le domeniche la Lega era solo il quarto partito secondo i tre studi che si sono occupati del voti cattolico alle scorse politiche. Più di quattro milioni di praticanti hanno scelto quei partiti ed è indubbio che l’appello del Pd zingarettiano, del M5S e di Berlusconi sia in calo presso i cattolici, è probabile che almeno due milioni di voti vadano verso destinazioni diverse. Chi li intercetterà? Sulla scheda elettorale per le europee sono solo due i simboli in grado di attrarre quei consensi in uscita: Lega e Popolo della Famiglia. Una volta aperte le urne si saprà come si sono distribuiti, ma certamente Salvini farà la parte del leone. Per il Popolo della Famiglia, trainato dalla proposta sul reddito di maternità contrapposto all’assistenzialismo insito nel reddito di cittadinanza, c’è però l’occasione di consolidarsi come soggetto politico autonomo che può svolgere un ruolo determinante nelle prossime elezioni politiche anticipate.

Alle europee si presenteranno nove simboli: Lega, M5S, listone Pd allargato (con pezzi di +Europa e Leu), Forza Italia, Fratelli d’Italia, lista arancione (De Magistris più Potere al Popolo), Popolo della Famiglia, Verdi+Italia in Comune, CasaPound. A seconda di come si distribuiranno i rapporti di forza tra questi nove simboli, si costruirà la griglia di partenza delle prossime elezioni politiche. Il 26 maggio si terranno le europee, entro il 10 luglio su un pretesto qualsiasi (la Tav?) scatterà la crisi di governo perché Mattarella concederà sì le elezioni ma solo con un governo neutrale a gestirle (non con Salvini al Viminale, per intenderci) e dunque nascerà un tipico governo balneare d’antan che condurrà allo scioglimento delle Camera a settembre e alle elezioni politiche del 10 novembre al più tardi. 26 novembre insediamento delle nuove Camere e elezione presidenti, ai primi di dicembre il nuovo governo potrà cancellare l’orrido reddito di cittadinanza e varare una legge di bilancio emergenziale ma di crescita vera.

La “rivoluzione” non è avvenuta il 4 marzo 2018. Avverrà però entro il 2019. E gli esiti sono ad oggi ancora imprevedibili. Chi giudica guardando all’oggi somiglia a quelli che credono al governo Conte che dura cinque anni. Roba da gonzi.