Mario Adinolfi: Conte e la transizione infinita

5 Giugno 2018 Mario Adinolfi
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, Il Popolo della Famiglia, Mario Adinolfi

Ottenendo la fiducia dai due rami del Parlamento il governo gialloverde guidato da Giuseppe Conte entra nel pieno delle sue funzioni. Lo fa dopo che il presidente del Consiglio ha enunciato in un lungo discorso il vasto elenco delle cose da fare, tutte piuttosto condivisibili: chi non vorrebbe meno tasse, lotta alla corruzione, guerra alla criminalità organizzata, salario orario minimo, reddito di cittadinanza, regolazione migliore dei flussi migratori, aiuti alle famiglie, andare d’accordo con l’Europa, con l’Alleanza Atlantica e pure con Putin togliendogli le sanzioni? Conte ha elencato tutti i punti di una generica buona prassi di governo, senza dettagliare alcun passaggio. Non ha appassionato, non ha diviso, ha eseguito bene il suo compito poco più che notarile. Ha declinato insieme i punti qualificanti del programma elettorale del Movimento Cinque Stelle insieme a moltissimi del programma elettorale del centrodestra, che però alle elezioni del 4 marzo erano stati presentati in competizione, definiti “incompatibili” e a ragione. Poi si può scegliere di sommarli, ma al primo respingimento in mare operato dalla Guardia Costiera, che costerà naufraghi e con ogni probabilità morti, che dirà Luigi Di Maio dopo aver ascoltato il lamento di Roberto Saviano pubblicato da Marco Travaglio sulla home page del Fatto Quotidiano?

Nasce il governo Conte ed è il governo delle contraddizioni: a guida grillina, compartecipato dal partito che esprime il leader del centrodestra, con lo stesso leader al governo e gli altri due partiti del centrodestra che stanno uno all’opposizione e l’altro si astiene. I grillini hanno i dieci ministeri più rilevanti per la vita delle persone più la presidenza del Consiglio, Salvini ha preso per sé la casamatta del ministero dell’Interno e i cinque ministeri ulteriori sono briciole. Lorenzo Fontana che meritoriamente ha posto la questione della natalità e della famiglia naturale è stato subito zittito, perché non si può porre la questione della natalità senza proporsi di limitare l’aborto (dal momento che in Italia un nascituro su cinque viene abortito), così come non si può porre il tema della famiglia naturale senza ricordare l’articolo 29 della Costituzione che esclude dal concetto di famiglia le sedicenti “famiglie arcobaleno”. Fontana con coraggio ha posto i due temi e subito gli hanno sbattuto in faccia il “contratto di governo”, dove ovviamente non c’è una parola contro le due leggi antifamiliste e mortifere, che legittimano unioni gay e aborto. Né una parola ha pronunciato Giuseppe Conte al riguardo.

L’eterna transizione italiana che dura da un quarto di secolo funziona sempre così: si enuncia un vasto libro dei sogni, si prova poi ad acconciare la realtà con quanto promesso utilizzando la comunicazione, infine inevitabilmente si delude e si perde il potere. Cominciarono con la Casa delle Libertà e il Polo del Buongoverno nel 1994, poi si inventarono l’Ulivo, che si trasformò in Unione mentre intanto dall’altra parte creavano il Popolo della Libertà, fino ad arrivare poi alla stagione di Monti prima e di Renzi poi. Perché hanno fallito tutti? Perché non sono stati mai chiari, perché le alleanze politiche di fondo erano ambigue ed inciuciste, dunque contenevano contraddizioni che frenavano l’azione di governo. Berlusconi partì provando a mettere insieme il Bossi secessionista e il Fini nazionalista, il collante del potere li tenne pure insieme per un po’, ma il sogno degli italiani che li stravotarono appassì subito. Allora fu il tempo di Prodi e dell’Ulivo, dei patti di destistenza con Rifondazione Comunista, ma puoi governare tenendo insieme Dini e Bertinotti? O, peggio, nella declinazione successiva chiamata Unione, Mastella e Turigliatto? Berlusconi ci riprovò con il colpo di genio del predellino, con il Popolo della Libertà e riuscì a costruire un partito del 38% dei voti, ma sempre con l’elemento contraddittorio della serpe in seno e fu Gianfranco Fini, la contraddizione esplose e addio PdL.

Governare è compito pesante, più che mai governare l’Italia. Nell’ultimo quarto di secolo abbiamo avuto leadership tutte selezionate attraverso il contesto della comunicazione e alla fine tutte fallimentari. Il Berlusconi del 38% è un pallido ricordo eppure lo prese appena dieci anni fa, oggi è al 12%. Ci hanno costretto a subire anche la stagione dei tecnici, tenuti in piedi da una stampa osannante, anche lì fu tutta comunicazione e Mario Monti poté permettersi di formare persino un proprio partito che prese un decisivo 10% alle elezioni politiche del 2013. Oggi quel partito vale zero voti e il senatore a vita Monti nel dibattito per la fiducia a Conte al Senato è stato costretto a subire l’onta del presidente Casellati che gli ha staccato il microfono perché era stato prolisso. Un altro capace dominatore dei sistemi di comunicazione, Matteo Renzi, regalando 80 euro ai dipendenti italiani è arrivato a toccare il 41% dei voti alle elezioni del 2014, oggi si arrabatta al 18% e fa il membro di quel Senato che voleva abolire.

Riusciranno i maghi della comunicazione del momento, i grillini con il loro sapiente uso di internet, promettendo invece di 80, 800 euro al mese a tutti a mantenere intatto il loro livello di consenso dopo la prova del governo? Verranno tentate manovre dilatorie. Conte ha già detto nel suo discorso che prima del reddito di cittadinanza da 800 euro al mese dovranno essere riformati i centri per l’impiego. Il 47% dei cittadini del Sud che hanno votato M5S sono disponibili a dare credito a questa dilazione? Possibile che il gioco resti utile per raccogliere ancora voti sulla speranza alle elezioni europee del maggio prossimo. Ma poiché sulla flat tax il barricadero Bagnai ci ha già informato che tocca attendere fino al 2020, se poi il ritardo diventa disillusione, ben presto si trasformerà in rabbia. E come per tutti gli altri, i consensi svaniranno.

Non si governa un Paese disperato come l’Italia con i trucchi della comunicazione, agitandosi sui social network, ripetendo ogni tre giorni che si sta “facendo la storia”, che finalmente è nato il “governo del cambiamento”. A me non piace la parola “cambiamento” perché è in realtà una parola neutra, un modo per non dire. Si può cambiare, infatti, anche in peggio. E ho paura che l’eterna transizione italiana avrà nel governo Conte uno dei capitoli peggiori, perché è il capitolo in cui il popolo ha posto la fiducia maggiore. La disillusione potrebbe portare a reazioni feroci.

Non me le auguro. Auguro anzi a Giuseppe Conte di realizzare tutto il suo libro dei sogni, di portarci ad avere un Paese in cui si pagano meno tasse, tutti hanno un reddito di almeno 800 euro al mese, ci sono meno corrotti e meno evasione fiscale, la mafia e la camorra e la ndragheta sono sconfitte, si va in pensione prima e si è tutti più sicuri con la cancellazione del fenomeno dell’immigrazione clandestina, mantenendo il nostro posizionamento in Europa, nell’Alleanza Atlantica ma allo stesso tempo essendo riferimento privilegiato di Putin. Spero davvero che il programma di governo enunciato da Conte sia realizzato. Spero, ma ho l’impressione che la transizione continuerà, con più rabbia di tutti in corpo tra un paio d’anni, dopo aver consumato l’ennesima fialetta di speranza.

Continuo a pensare che fosse più pragmatico e realizzabile il programma proposto alle elezioni del 4 marzo dal Popolo della Famiglia: rinascita valoriale, investimento sulla famiglia e sulla figura femminile con il reddito di maternità da mille euro al mese, abrogazione della legge Cirinnà, proclamazione dello status giuridico del nascituro e del diritto universale a nascere, sostegno alla impresa familiare e ai giovani che si uniscono in matrimonio per l’emergenza abitativa, libertà scolastica, aiuto alla disabilità e alla famiglia che la sostiene, abrogazione della legge sul cosiddetto “biotestamento” e investimento nelle cure palliative e nella terapia del dolore. Un programma non di enunciazioni ma di provvedimenti concreti immediatamente esecutivi che avrebbero cambiato la vita delle persone e fatto rinascere l’Italia investendo sul cuore vivo del Paese, cioè sulla famiglia naturale.

Come ci ricordano sempre, alle elezioni il Popolo della Famiglia non ha eletto parlamentari. Dunque svolgeremo la nostra azione di stimolo dall’esterno delle Camere, sostenendo quel che di buono il governo farà e chiedendo che l’agenda della famiglia non resti uno slogan dove il ministro annuncia e il capodelegazione al governo frena, così si coprono tutte le porzioni di elettorato. No, questi sono meccanismi di mera comunicazione e non funzionano, quando si va al governo bisogna fare altrimenti alle elezioni si viene puniti.

Molto è stato promesso. Decisamente troppo, forse irresponsabilmente. Speriamo che almeno qualcosa facciano e che le contraddizioni a me fin troppo evidenti non facciano impazzire subito la maionese. Di certo le famiglie italiane non possono attendere molto. Noi nel Paese continueremo a mettere in guardia dal grillismo di governo, palingenetico ma avaloriale e per questo spericolato, proponendoci come alternativa a costoro che nei comuni registrano i figli di due mamme, sostengono l’utero in affitto, smantellano i manifesti dei prolife, tagliano i fondi alla scuola cattolica e hanno dimostrato di essere assolutamente incapaci nella guida di una comunità. Il Popolo della Famiglia, come ha solennemente affermato l’organo politico di guida del movimento che è l’assemblea nazionale degli iscritti, è alternativo al M5S e al Pd. Restiamo alternativi, non cambiamo idea. Il 10 giugno vi invitiamo a votare PdF alle amministrative e a dar forza al nostro progetto valorialmente piantato nelle radici solide del cristianesimo, senza ambiguità possibili.

Nel frattempo ci auguriamo anche il bene dell’Italia e speriamo che un po’ di bene lo faccia anche il contraddittorio governo Conte, contribuendo a chiudere la stagione che dura da decenni della infinita transizione italiana guidata da politici attenti solo alla comunicazione e non alla soluzione dei problemi profondi del Paese.