“Il film sta da una parte e Adinolfi dall’altra, questa volta ha vinto Adinolfi”. Impazza la polemica nella comunità Lgbt perché un “loro” film non incassa il dovuto e si sa che sul tema denari i ragazzi sono sensibili. Per carità, non è esaltante sentirsi utilizzati come modello di un insulto anche piuttosto pesante (nel corso della polemica c’è chi ha scritto “vi meritate Adinolfi” e chi ha controbattuto “se va male un film sulla Shoah non si può scrivere: vi meritate Hitler”), ma c’è in tutto questo una lezione da trarre. Gli interessi della lobby Lgbt riescono a essere ben difesi solo negli ambienti chiusi di casta (siano essi politici, parlamentari, mediatici, giornalistici o del mondo dello spettacolo) quando poi si esce dal contesto paramafioso e si entra in una dimensione popolare, quegli stessi interessi si sciolgono come neve al sole. La lobby Lgbt non ha numeri per reggere il confronto con il mondo reale, vive solo in una dimensione di nicchia o in una dimensione mafiosa, dove per mafia si intende il potere di pochi individui che organizzati in maniera violenta impediscono a chi non aderisce al consesso mafioso di far valere le proprie ragioni. Questi meccanismi funzionano in Rai, in Mediaset, qualche volta persino in Parlamento o negli Ordini professionali. Se scendiamo in mezzo al popolo no. Piazza San Giovanni o il Circo Massimo sono per noi, per loro solo camarille, aperitivi e Gay Village. Poi, certo, ci sarà sempre una trasmissione di Raitre o una Barbara D’Urso a voler far credere agli italiani che due maschi possono comprare un bambino da una donna povera e che quello è un modo di costruire una famiglia. Ma quelle sono illusioni ottiche artificialmente edificate ad arte da una lobby prepotente e incurante persino delle leggi. Nella verità popolare, quella che conta, è vero: alla fine, vinceremo noi.