INDIPENDENZA NON E’ AUTODETERMINAZIONE

4 Luglio 2017 Mario Adinolfi
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Il Popolo della Famiglia, Mario Adinolfi

C’è qualcosa che mi resta sempre addosso dopo ogni Independence Day, dopo ogni 4 luglio: la sensazione che sia la festa civile più importante del mondo occidentale. Provo un qualche ribrezzo il 14 luglio a celebrare quella Rivoluzione Francese grondante sangue persino nell’Inno nazionale che ancora oggi la ricorda e mi spunta un sorriso divertito il 2 giugno, anniversario di un referendum che fu la prima occasione per parlare nell’Italia repubblicana di “imbroglio”, cifra certamente mantenuta nei successivi sette decenni di storia. La Dichiarazione di Indipendenza del 4 luglio 1776, invece, per ragioni politiche e ragioni private che andrò ad elencare, mi incute rispetto.
Avete mai letto integralmente questo documento fondamentale della storia moderna? In molti hanno qualche eco mucciniano derivante dal titolo di un film (The Pursuit of Happiness, in italiano: La Ricerca della Felicità) girato dal regista romano attorno all’eterno tema dell’American Dream che riscatta i deboli attraverso la loro tenacia, che è certamente un tema importante, ma periferico rispetto al nodo cruciale di quella pergamena ormai quasi illeggibile che gli americani venerano e festeggiano come documento fondante della loro democrazia.
La Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti è fondamentale per tre regioni: cita esplicitamente “Dio” e non in termini rituali, richiama con chiarezza la “Legge di Natura” ed è dunque un Carta giusnaturalista, infine indica come primo diritto quello alla Vita, cui consegue il diritto alla Libertà (e sì, come dicevamo, quello molto american-mucciniano alla “ricerca della felicità”). Queste premesse fanno sì che ancora oggi, duecentoquarantuno anni dopo quel 4 luglio 1776, le banconote dei dollari americani contengano un esplicito riferimento alla fede (“In God we trust”) e qualsiasi presidente americano, di qualsiasi colore politico, non possa concludere un suo discorso pubblico senza invocare la benedizione divina sul proprio paese: God bless America.
Sono elementi solo formali? La maggiore superpotenza del pianeta ha derivato forza da una dichiarazione fondante così netta sui principi o, nel terzo millennio secolarizzato ormai, tutto questo non ha alcuna importanza, si tratta solo di vuote parole? Le recenti prese di posizione di un presidente come Donald Trump, certo non un modello di bigottismo, sembrano procedere in una linea di continuità con le scelte giusnaturaliste e pro-life indicate dalla Carta fondamentale americana. Che dunque nel momento in cui dichiara l’Indipendenza non afferma il diritto generico all’autodeterminazione, ma anzi lo assoggetta proprio alle leggi di natura e al principio fondamentale del diritto alla vita.
Ricordiamo tutti le parole iniziali e solenni del testo: “Quando nel corso di eventi umani, sorge la necessità che un popolo sciolga i legami politici che lo hanno stretto a un altro popolo e assuma tra le potenze della terra lo stato di potenza separata e uguale a cui le Leggi della Natura e del Dio della Natura gli danno diritto, un conveniente riguardo alle opinioni dell’umanità richiede che quel popolo dichiari le ragioni per cui è costretto alla secessione.
Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati”. Il Dio di questa dichiarazione non è un Dio generico ma è “Dio Creatore”, dunque Dio persona, da cui derivano le “Leggi della Natura”, che danno origine ai diritti elencati: Vita, Libertà, ricerca della felicità. Lo strumento per garantire questi diritti è la democrazia, con i poteri che derivano dunque dal “consenso dei governati”. La verità non va più neanche dimostrata in questa dichiarazione, va semplicemente testimoniata assumendo la responsabilità delle conseguenze, perché “sono per se stesse evidenti queste verità”. Il principio di uguaglianza tra gli esseri umani è ovviamente proclamato come fondamentale e primario.
Non basta una Carta a determinare poi una storia lineare: quella americana è zeppa di contraddizioni e di nodi ancora non sciolti, dallo schiavismo legale nei primi decenni, al segregazionismo di stampo razzista, fino alla pena di morte ancora attiva nella maggioranza degli Stati federati americani ancora oggi. Quello che però mi sento di dire con addosso la sensazione di questo 4 luglio di indipendenza e non di fredda autodeterminazione, oggi che Charlie Gard compie 11 mesi e la Corte Suprema ha approvato il Muslim Ban con nove voti a zero e il presidente Trump ha dato applicazione alla promessa del “defund Planned Parenthood” almeno sul piano internazionale e il vicepresidente Pence ha partecipato ad una trionfale edizione della Marcia per la Vita, ecco quello che mi sento di dire è che dagli Stati Uniti d’America giunge l’idea che una nuova strada da percorrere connessa alla tradizione dei Founding Fathers di quella democrazia stia forse per dare speranza anche all’Europa, in un’intima e spirituale connessione da costruire in special modo con la nostra Italia, culla della civiltà del Vecchio Continente che portato il diritto alle genti per tutelare sempre i più deboli.
Nell’estate di più di un quarto di secolo fa da ragazzino ribelle decisi letteralmente di sbattere la porta di casa dei miei genitori e andare a battere la strada per conto mio, in aperta polemica con la mia famiglia. Non fu un colpo di testa, fu una decisione di un giovanissimo che si rivelò tenace: da allora mai più ho dormito a casa dei miei genitori. Ci furono dolore e lacrime, la rabbia della mia scelta di “autodeterminazione” giovanile era contenuta in una canzone che si intitola proprio Independence Day ed è un dialogo terribile e struggente tra un figlio e un padre nella notte in cui il figlio gli annuncia la decisione irrevocabile di andarsene di casa. Per anni ogni 4 luglio ho cantato quella canzone ribadendo le promesse di “indipendenza” di allora. Oggi che mio padre non c’è più ho scovato all’interno del testo la ragione profonda per cui quella canzone di Bruce Springsteen mi è così cara. In un paio di versi dice la più ovvia delle verità: “There was just no way this house could hold the two of us /
I guess that we were just too much of the same kind”. Non c’era modo che la nostra casa potesse contenerci entrambi, perché siamo troppo simili. Eravamo troppo simili.
La vicenda personale mi fa capire mi fa capire il possibile svilupparsi di una vicenda universale: la rottura “autodeterminativa” sofferente e rabbiosa si sana solo quando si capisce l’intima connessione che si ha con le radici fondanti. Lo spirito dei Founding Fathers, contestato da tutti i progressisti atei e materialisti d’America, sana le ferite e le contraddizioni che attraversano la società solo se recuperato e riconosciuto: Dio Creatore, Leggi di Natura, diritto alla Vita come fondamento del diritto alla Libertà. La lezione del 4 luglio può essere recuperata e vivificata. Non è un’operazione semplice. Quando andai via di casa andai a fare letteralmente la fame cercando la mia strada fino a Parigi. Proprio a Parigi il 4 luglio di pochi anni fa trovai Bruce Springsteen cantare di nuovo Independence Day: l’ha scritta quarant’anni fa e eseguita centinaia di volte. Quel giorno (c’è un video a testimoniarlo) pareva particolarmente sofferente, sospirò prima di mettere le mani sulla tastiera del pianoforte e analogamente alla fine del brano. Sembrava parlarmi e oggi riguardando quel video sembra parlarci.
La strada dell’Indipendenza è faticosa, quella della realizzazione dei veri diritti anche, l’unica possibilità è farsi aiutare. Dai propri padri: Dio Creatore, Founding Fathers e perché no, anche dalla memoria di mio papà.