Figlio di Ugo Adinolfi

26 Aprile 2017 Mario Adinolfi
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Il Popolo della Famiglia, Mario Adinolfi

La mia biografia su Wikipedia da qualche mese si apre con la frase “figlio dell’attore Ugo Adinolfi”, che avrebbe fatto infuriare mio papà, morto giusto un anno fa. La rete cementifica il falso e allora stasera scusatemi se rendo onore alla verità e racconto ai pochi che sono interessati qualche parola su mio padre, deceduto dopo lunga malattia il 26 aprile 2016, tre giorni dopo aver firmato le liste del Popolo della Famiglia, il suo ultimo atto pubblico. Papà è nato sotto le bombe del 1943 a Salerno, il primo di aprile, da genitori non fantasiosissimi, impiegati alle Poste, che guardarono il calendario e gli imposero il nome del santo del giorno: Ugo.
Salerno, 1943, è fame inimmaginabile, notti nei rifugi perché gli Alleati bombardano senza tregua, preparano lo “sbarco”. Non si studia più la storia, ma Salerno fu scelta dagli Americani come luogo tirrenico da cui poi risalire verso Roma. Ma quando papà nasce, ad aprile, la situazione bellica è terrificante tra nazifascisti quasi in rotta e aerei che scaricano tonnellate di esplosivo dal cielo. Il primo compleanno però Ugo lo festeggia in una Salerno liberata, capitale d’Italia dall’11 febbraio 1944 e per cinque mesi. La famiglia è povera, nonno Mario è un soldato reduce da imprese non memorabili sul campo di battaglia e ben felice del lavoro alle Poste, nonna Ielma più coriacea soffre in silenzio per la morte del fratellino di papà. Seguiranno tre sorelle, ma maschi Adinolfi non ne nasceranno più. Io sono l’eccezione che conferma la regola.
Ugo è un bellissimo ragazzo, capelli neri, carnagione olivastra, occhi davvero scuri. Cresce sognando d’andar via dalla provincia, è affascinato dal cinema, fugge di casa all’alba degli Anni Sessanta dopo un’adolescenza da discolo e riesce ad iscriversi e diplomarsi al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma. Sarà attore marginale in molti film, co-protagonista in un paio, ma nel 1970 sposa il suo amore “straniero”, mamma Louise partita su una nave alla ventura dal porto di Sydney a 21 anni appena compiuti e arrivata in Italia per non andarsene più, dall’amore nasco io: Ferragosto 1971. E la vita di papà cambia. Fate i conti, aveva 28 anni. L’anno scorso è morto, a 73.
Con la mia nascita papà smise di pensare al cinema, cercò un “lavoro sicuro”, gli spiegarono che ci voleva la laurea e allora si iscrisse umilmente “con i ragazzini” all’università. Studiò come un pazzo e nel frattempo faceva concorsi nello Stato per dare stabilità alla famiglia. Si laureò in Scienze Politiche a 33 anni suonati e gli dissero che per i concorsi di livello più alto sarebbe servita la laurea in giurisprudenza e allora ricominciò da zero, si iscrisse a Giurisprudenza e alle soglie dei quarant’anni, con il sistema nervoso devastato da un inevitabile esaurimento, aveva “messo in sicurezza la famiglia”: due lauree, concorso vinto al ministero, posto fisso, alla fine divenne un dirigente molto rispettato e temuto, onesto fino all’ossessione, folle nel suo trascorrere dodici ore in ufficio tutti i giorni uscendo di casa poco dopo le sette del mattino dopo essersi fermato a pregare davanti a un’immagine di Papa Giovanni XXIII, per rientrare poi sfranto a casa alle otto di sera. Il suo impegno non richiesto e non dovuto non fu in alcun modo premiato, ovviamente: troppa dedizione, troppa onestà, vero disprezzo per i corrotti e gli “accomodanti”, ostile al sindacato “che non fa lavorare per bene le persone”. Presero papà dagli incarichi che erano stati costretti dalla sua bravura ad affidargli, lo rimossero e negli ultimi anni fu sbattuto in una stanzetta letteralmente a non fare niente. Umiliato e offeso, volle comunque andare a lavorare ogni giorno, sempre per dodici ore, perché “non si sa mai, potrebbero aver bisogno”. Poteva andare in pensione prima, scelse di andarci a 67 anni, limite estremo possibile. Tre giorni dopo l’ultimo giorno di lavoro ebbe un infarto da cui la sua salute non si riprese più. Mentre era ricoverato in ospedale tra la vita e la morte arrivò una telefonata del ministero: chiedeva la restituzione di due buoni pasto che papà stava giusto riportando alla sede quando venne afferrato dall’attacco cardiaco.
Se devo ricordare mio padre, davvero, l’ultima cosa che mi viene in mente è “attore”. E’ stato un importante servitore dello Stato, durissimo contro i truffatori delle false pensioni di invalidità o delle comiche “pensioni di guerra”, poi è stato un marito devoto e un papà giusto. Credeva nella famiglia unita e quando la nostra è stata squassata da un dolore troppo grande da sostenere, lui a suo modo è riuscito a tenere la barra dritta, perché era un uomo con una spina dorsale e un profondo senso della dignità, anche nella sofferenza estrema. Davvero “attore” lo è stato per pochi anni della sua gioventù, poi è stato uomo, uomo vero, incapace di indossare maschere, sincero fino alla brutalità, con un caratteraccio, ma poi bastava una fiction scritta anche male sulla bellezza dei sentimenti familiari per vederlo sciogliersi in liberatorie lacrime. Credeva ad un mondo fatto di sì che significano sì e no che significano no, quindi questo non era il suo mondo. Si è sacrificato con mia madre in maniera che neanche potete immaginare affinché mia sorella ed io potessimo studiare nelle migliori scuole perché, mi diceva, “tu sei figlio di nessuno e l’unica arma sarà il tuo sapere”.
No, non sono figlio di nessuno. Sono figlio di Ugo Adinolfi, uomo coraggioso e retto, che ha servito lo Stato e la sua famiglia come si deve, è vissuto ed è morto soffrendo senza mai smettere di indicare con serietà la possibilità di un modo onesto di affrontare la vita sorridendo e talvolta ridendo, confortati dalla preghiera e dall’amore di chi ci ama davvero. Da ragazzo sbuffavo per le sue frasi rituali e fin troppo semplici, che ripeteva come fossero sempre nuove: “Ti auguro tanta serenità, con un pizzico di felicità ogni tanto”. Oggi mi manca molto il non poter riascoltare questa sua straordinaria normalità, il suo buonsenso da padre di famiglia, la sua severità sui principi, la sua nettezza su ciò che è bene e ciò che è male, la sua fedeltà alla moglie che si faceva tenerezza e che noi sfottevamo, sorridendo. Scriveteci questo su Wikipedia, perché questa è la verità, smettete di spacciare le verità di comodo e di credere alla rete. Credete alla vita e alla Resurrezione, che consola ogni dolore, oggi anche il mio.