MANCA CASALEGGIO, GRILLO NON E’ UN LEADER

9 Settembre 2016 Mario Adinolfi
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, , Il Popolo della Famiglia, Mario Adinolfi

Bocciando platealmente l’ipotesi olimpica per Roma, Beppe Grillo prova ad affermare la solidità della sua leadership rispetto al vertice capitolino. La teoria è nota e non senza senso: Virginia Raggi ha preso 770mila voti e con essi è diventata sindaco di Roma, ma senza il M5S sarebbe stata nulla, quindi i voti sono del M5S e del loro garante. Beppe Grillo, appunto. Per molti anni, perché alcuni fingono di dimenticare che il MoVimento Cinque Stelle è sulla scena politica ormai da quasi un decennio, il meccanismo ha funzionato. Il partito era organizzato con uno schema leninista efficacissimo e nessuno ricorda più neanche i nomi di Giovanni Favia e Valentino Tavolazzi, primi dissidenti interni al M5S nell’era pre-parlamentare, “scomunicati” dall’unico vero leader che i pentastellati abbiano avuto e che risponde al nome di Gianroberto Casaleggio.
Proprio Giovanni Favia spiegò in una intervista fintamente rappresentata come un fuori onda televisivo (lo stesso Favia era terrorizzato per le conseguenze del suo gesto di rottura e non ebbe il coraggio di dare una vera e propria intervista esplicita e chiara di dissenso) come funzionava il M5S: era la democrazia diretta. La democrazia diretta da Gianroberto Casaleggio. Uno vale uno, ma uno è il numero uno, tutti gli altri eseguono o vengono cacciati.
Casaleggio veniva rappresentato come un pazzo, ma non era un pazzo, era un visionario, è una cosa diversa. Sognava di abbattere un sistema sclerotizzato utilizzando come arma il web e l’ansia di protagonismo delle persone comuni. Se Paola Taverna è senatore della Repubblica lo si deve a questa visione. Può piacere o non piacere, ma il meccanismo è questo: poiché le classi dirigenti dei partiti non portano più da un pezzo in Senato i Benedetto Croce o i Sandro Pertini, possiamo far occupare gli scranni da borgatari e ragazzotti vari di nessuna qualità. Come Lenin che volevo lo Stato governato da una cuoca, Casaleggio coltiva un’ambizione analoga, sapendo che il web ha fracassato tutti i “mestieri di intermediazione” e dunque anche il professionismo della politica. Certo tra scie chimiche e gomplottardi di varia estrazione, il caravanserraglio di cuochi poi va governato. Ma Casaleggio sapeva di avere l’autorevolezza e la durezza per poterli governare, in nome della visione che li aveva politicamente creati. E infatti così andò. Dei dissidenti si perse rapidamente persino memoria del nome.
Poi però le cose degli uomini sono caduche e per Casaleggio arrivò la chiamata del Signore, prima la grave malattia e poi la prematura morte. Una perdita incommensurabile per il MoVimento all’avvio della propria storia parlamentare, come se Lenin fosse morto a settembre del 1917. Beppe Grillo ha provato a fare Stalin, ma non ne ha il fisico, né la sensibilità, né la visione politica. Consapevole della malattia Casaleggio aveva provato a costruire organismi dirigenti, direttori e minidirettori vari, a puntare sui ragazzi migliori selezionati sul campo (i vari Di Maio e Di Battista), a convincere Grillo ad annunciare il famoso “passo di lato” e a fargli togliere il nome dal simbolo del MoVimento. Ma erano ancora atti immaginati da Casaleggio, dalla sua lucida visione politica, dalla sua capacità di leggere le necessità concrete dei pentastellati e ciò che serviva a far crescere il loro consenso. E infatti alla base delle vittorie alle amministrative del giugno 2016 c’è proprio l’ultima intuizione di Casaleggio: de-grillizzare il Movimento Cinque Stelle e avviare la costruzione di una vera classe dirigente da partito di governo. Il tempo che gli è stato concesso è stato poco e l’inventore del M5S è morto prima di vedere Virginia Raggi diventare sindaco di Roma.
Con lui in vita i carichi pendenti degli assessori sarebbero stati vagliati prima, la Raggi non avrebbe avuto alcuna autonomia e la lista degli assessori in Campidoglio sarebbe stata stilata negli uffici della Casaleggio e associati a Milano. Ovviamente qui non si vuole dire che questo sarebbe stato un bene, ma certamente avrebbe funzionato. Maniacalmente preciso e ossessionato dal controllo com’era, Casaleggio non avrebbe permesso la guerra tra bande tra i grillini romani che è all’origine del disastro di questi tre mesi. Grillo è più distratto, più ricco, vorrebbe tornare agli spettacoli, ha una visione politica molto confusa e dunque è arrivato a Roma a chiudere la stalla quando i buoi ormai erano scappati, con un assessore che salta al giorno, accuse di dilettantismo travolgenti, sospetti che ci sia anche qualcosa di più quando si legge che l’assessore all’ambiente avrebbe preso ventiduemila euro da una società di Manlio Cerroni (il ras dei rifiuti a Roma) nei giorni in cui veniva nominata da Virginia Raggi.
Poi arriva il colpo di genio del comunicatore (Casaleggio volle Grillo come volto del MoVimento per questo) che va e dice che le Olimpiadi a Roma non s’hanno da fare, per provare a dare a stampa e televisioni il segnale di chi comanda davvero. Non la dubbiosa Raggi, non l’assessore pro-Roma 2024 che ha in giunta, ma il comico genovese. Un atto arrogante, che sarà vissuto con enorme fastidio in Campidoglio: Casaleggio non avrebbe fatto arrivare il dilemma olimpico a questo punto, avrebbe costretto la Raggi a pronunciarsi a giugno e a chiudere immediatamente la questione, senza strascichi e margherite da qui quotidianamente strappare un diverso petalo per risolvere quesiti apparsi come amletici.
Sopravviverà il M5S alla morte del suo fondatore? Questo il quesito reale che sostituisce la domanda che va per la maggiore a Roma e non solo su quanto durerà Virginia Raggi in fascia tricolore. I movimenti strutturati di solito sanno reggere l’impatto della scomparsa dell’iniziatore, il M5S dà l’impressione di essere in mano a improvvisatori e furbastri, che ora non riescono più a pronunciare il mantra “onestà, onestà” perché sanno d’aver pronunciato troppe menzogne e di aver annegato le loro parole nella salsa del quotidiano imbroglio. La trasparenza degli atti, cavallo di battaglia della visione di Casaleggio, è diventata opacità dei fatti. Ora occorre un Grillo che a sessantacinque anni suonati voglia scoprire la complessità della politica e farsi leader davvero o un qualche colonnello grillino che dal campo assuma i galloni del decisore, senza direttorio e sguaiataggini di borgata a voler creare il cicaleccio della finta democrazia interna. Potrebbe essere Virginia Raggi stessa, almeno a Roma, questa figura che incarna la leadership? I 770mila voti che ha ricevuto le forniscono l’occasione per provare, ma non pare avere la stoffa e Grillo l’ha misurata. Non la lascerà fare da sola, la terrà sotto tutela e questo provocherà nuove tensioni interne e guai per la città.
L’approdo a-valoriale della proposta politica palingenetica mostra tutti i suoi limiti e rischia di affogare nelle più plateali contraddizioni, che la visione complessiva di Casaleggio aveva nascosto grazie ad una spinta propulsiva tipica delle prime fasi dei movimenti rivoluzionari. Ora la spinta si è dissolta, Casaleggio è morto, i limiti sono anche quelli di un Beppe Grillo inadatto alla quotidianità della politica. Servirebbe un ripensamento della natura stessa del MoVimento, da svolgere in campo aperto, ma non è nella loro natura. La cuoca di Lenin può governare uno Stato solo in un disegno teorico. La concretezza della storia richiede Lenin o gruppi dirigenti all’altezza. Il M5S non ha più il primo, non ancora i secondi. E Grillo è solo un comico comunicatore, ma la politica non è solo comunicazione, è soluzione dei problemi delle persone. Il deserto delle alternative a destra e a sinistra fa pregare affinché il M5S risolva presto i suoi problemi. La razionalità spinge a organizzare le forze per la prossima battaglia politico-elettorale che ridisegnerà i rapporti di forza nell’infinita transizione italiana.