ELEZIONI, ECCO COS’E’ ACCADUTO

6 Giugno 2016 Mario Adinolfi
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Il Popolo della Famiglia, Mario Adinolfi

Le elezioni del 5 giugno 2016 non possono essere archiviate come una tornata amministrativa delle tante che annualmente punteggiano la strada di una legislatura. Queste elezioni ridisegnano chiaramente gli equilibri politici, fanno suonare campanelli d’allarme, indicano soluzioni. Un’analisi va compiuta a caldo, tentando di rimanere freddi e segnalando i dati più evidenti che rischiano di affogare nell’isteria delle opposte tifoserie. Le questioni più rilevanti sono cinque.
1. L’AFFERMAZIONE DEL MOVIMENTO CINQUE STELLE. In morte di Gianroberto Casaleggio il movimento capitanato da Beppe Grillo si ritrova con un livello di consenso colossale. Fa quasi tenerezza Virginia Raggi che proclama timida e un po’ affannata dall’emozione “sarò il primo sindaco donna, il vento sta cambiando”. Ma quale vento che cambia, qui è passata una tempesta e i primi che non sembrano essersene accorti sono proprio i pentastellati. Il 35.3% a Roma è un livello di consenso che fa tremare le vene dei polsi, non solo agli oppositori dei grillini, ma forse anche a loro stessi. Ora il gioco si scoprirà, questi sono voti da grande partito egemone di governo. E occorrerà governare, partendo dalla prova più difficile: Roma. Anzi, precisiamo: Roma, con 14 miliardi di buco e l’ostilità manifesta dell’esecutivo nazionale e di quello regionale. Potrà fare bene Virgina Raggi? Sulle sue gracili spalle grava la responsabilità di dare un passo da forza di governo al MoVimento. Anche Chiara Appendino con il suo 31% a Torino può giocare la partita della vita contro Piero Fassino, ma non è obbligata a vincere. Certo i numeri dell’affermazione pentastellata sono impressionanti e, ancora una volta, nessun sondaggista li aveva previsti. Segno che il fuoco che cova sotto la cenere delle nostre città è molto più imponente di quel che pure le rilevazioni statistiche provano a individuare.
2. LA CRISI DEL RENZISMO. Per la prima volta da quando è arrivato fragorosamente al potere, il renzismo si ritrova ad affrontare una crisi oggettiva. Mi pare più una crisi del renzismo che di Matteo Renzi premier. Il secondo ha in canna una serie di mosse pre-referendum costituzionale (su tutte, l’estensione del bonus degli ottanta euro ai pensionati) che gli costruiranno attorno un’aura di invincibilità in vista del nuovo appuntamento con le urne del 2 ottobre. Il renzismo però va chiaramente in crisi: la classe dirigente selezionata dal premier, il fastidio evidente palesato dal premier rispetto agli appuntamenti con le urne che non lo riguardano personalmente, persino le modalità di comunicazione in campagna elettorale, mostrano platealmente la corda. Si è scelto candidati per niente brillanti, dalla gamba corta, restando dentro l’ossessione di Renzi verso la crescita di chiunque possa fargli ombra. Scottato dall’esperienza di Michele Emiliano eletto presidente della Puglia e subito dopo trasformatosi in leonina leadership alternativa nel Pd (tentazione coltivata anche dal governatore toscano Ernesto Rossi), Renzi tende a candidare alle amministrative persone che devono avere le caratteristiche di quelli che gli fanno da ministri nell’esecutivo: devono essere privi di caratura e effettiva autonomia decisionale. Nascono così i Giachetti che in tutta evidenza non hanno nessuna voglia di sbattersi più di tanto per un lavoro a cui preferisce quello sereno e meglio pagato di vicepresidente della Camera e le Valente che nulla potevano contro la corazzata De Magistris a Napoli. Certo, farsi battere pure da Lettieri è proprio la prova che la selezione di classe dirigente ispirata dai criteri renzisti provoca disastri.
3. UN CENTRODESTRA ALLO SBANDO. Ho avuto la fortuna di vedere con i miei occhi uno stralunato Silvio Berlusconi arrivare al seggio, lo stesso in cui ho votato io, trascinato per mano da una sempre più vampiresca Francesca Pascale. Tra cerone eccessivo, tacco rinforzato, colorazione dei capelli e ottant’anni che nonostante questo si vedono tutti, è stato come avere davanti la maschera di un disfacimento fin troppo evidente. Vedere Forza Italia sotto il 5% in una città che ai tempi di Alemanno (chiusisi nel 2013, non tre secoli fa) insieme ad Alleanza nazionale dominava con fermezza, spiega la crisi irreversibile del berlusconismo. Alfio Marchini non maledirà mai abbastanza la scelta di aver abbracciato in un colpo solo i berluscones di rito missino Gasparri e Storace, simbolo di una politica vecchia destinata ormai ad essere spazzata via. Proporsi come civico ed accettare il sostegno dei più vecchi tra i vecchi è stato l’errore cruciale suggeritogli da colui che Marchini s’era scelto come kingmaker, l’oscuro Andrea Augello che lo ha portato così al disastro. Matteo Salvini e Giorgia Meloni salvano faccia e onore, ma non essere arrivati al ballottaggio a Roma è colpa troppo grave soprattutto se paragonata alla baldanza dell’operazione Stefano Parisi a Milano, dove forse si riscontra il laboratorio del centrodestra che verrà: politici ai margini, tutto in mano volta per volta al papa straniero di turno. Un brutto ridimensionamento per chi si sognava epigono di Marine Le Pen e ora si sveglia solo come portatore d’acqua, possibilmente da escludere dalle foto di gruppo.
4. LA QUESTIONE GENERAZIONALE. Queste elezioni certificano il passaggio di potere tra le generazioni. A Roma nel 2013 si sfidarono due nati negli Anni Cinquanta, due signori oggi sessantenni e alle politiche il duello era tra l’allora settantasettenne Berlusconi e l’oggi sessantacinquenne Pierluigi Bersani. I protagonisti dello scenario del 5 giugno 2016 sono tutti nati negli Anni Settanta e addirittura Ottanta: Matteo Renzi, Matteo Salvini, Virginia Raggi, Chiara Appendino, Luigi Di Maio, Maria Elena Boschi, Giorgia Meloni, Alessandro Di Battista sono i comandanti in capo delle varie truppe schierate sul campo di battaglia. La cesura generazionale pensiona alcune vecchie logiche e rivalità, ne costruisce di nuove, alcune ancora non indagate, ma certamente foriere di dinamiche che sarà interessante conoscere prima perché generanno i conflitti che faranno la storia prossima ventura del paese.
5. L’IRRILEVANZA DEI CATTOLICI. Frantumati nella discussione in Parlamento sulle unioni civili, l’area del cattolicesimo politico esce a pezzi dalla competizione elettorale. A Roma si è raggruppata sotto le insegne (messe su a bella posta per nascondere i simboli ormai impresentabili di Ncd) di Roma Popolare ottenendo nonostante l’esplicito impegno del ministro Beatrice Lorenzin e di altri membri autorevoli dell’esecutivo a partire da Angelino Alfano un terrificante uno per cento. Meglio è andata Maurizio Lupi con l’operazione gemella Milano Popolare che ha toccato il tre per cento anche grazie all’apporto dell’ex presidente di Regione Lombardia, Roberto Formigoni. Si tratta della punta più alta toccata dai cattolici di governo a queste amministrative che peraltro non erano riconoscibili con alcun simbolo sul territorio nazionale. In questo senso l’esordio in poche settimane del Popolo della Famiglia, capace di raccogliere un uno per cento nazionale presentandosi in tutta Italia come unica formazione che organicamente in queste amministrative ha scelto di essere presente con proprie insegne in tutte le città provenendo dal ceppo della mobilitazione per il Family Day, è la sola novità del panorama. I delegati del nuovo movimento si riuniranno in assemblea l’11 giugno per decidere l’evoluzione dell’impegno, che comunque li vede protagonisti di tre ballottaggi (Varese, Cordenons, San Benedetto del Tronto) e ago della bilancia in tutta Italia. A Roma la scelta del Vicariato e di alcuni ambienti Cei di sostenere Alfio Marchini si è rivelata disastrosa e sarà presto dimenticata. Ma la lezione sarà stata appresa? L’impressione è che la Chiesa si sia quasi rassegnata ad avere una stragrande maggioranza dei fedeli che esce dalla messa domenicale in parrocchia e va a votare il Movimento Cinque Stelle che teorizza e propaganda in Parlamento i matrimoni plurimi (a quattro, a sei, a otto) e interspecie (uomo-cane, donna-gatto), oppure il radicale Giachetti che ha nelle sue liste il candidato fruitore e testimonial dell’utero in affitto. Il tutto magari in cambio di quattro spicci promessi “alle famiglie”. Peraltro promessi e spesso non dati. La scelta del Popolo della Famiglia di costruire un soggetto politico imperniato sui principi non negoziabili ha attratto il consenso di decine di migliaia di persone in poche settimane. Sarà la nuova Comunione e Liberazione? O, meglio, il nuovo Movimento Popolare? Un gruppo coeso ed efficace di cattolici impegnati in politica con un mandato molto preciso? Presto per dirlo, il PdF andrà valutato nella capacità di tenuta dei prossimi mesi. Certo è che la proposta di trasformare la presenza dei cattolici in politica in una mera attività da “sindacato delle famiglie” per ottenere qualche vantaggio economico appare una prospettiva asfittica, che condannerà ancora di più all’irrilevanza quel che resta del cattolicesimo politico. Serve una sfida alta e fortemente legata ai principi non negoziabili ora che rischiano di essere travolti dal prossimo Parlamento: il Popolo della Famiglia sembra avere caratteristiche più adatte alla bisogna.
Fin qui lo scenario complessivo. Qualcosa si modificherà con l’esito dei ballottaggi del 19 giugno, ma sembrano tutti ad esito piuttosto scontato. Da lì si partirà per cento giorni di campagna referendaria sulla riforma costituzionale, informalmente fissato al 2 ottobre. Da quel giorno in poi, comincerà il count down della fine della legislatura. Si passerà dal congresso del Partito democratico, in cui si regoleranno i conti tra Renzi e la minoraiza interna. Poi sarà tempo di elezioni politiche, con ogni probabilità nel 2017, le prime con l’Italicum. E lì tutto ciò di cui si è scritto in questo lungo articolo prenderà forme definitive con vincitori e vinti, per una diciottesima legislatura repubblicana che segnerà in profondità la storia del nostro paese e la vita degli italiani.
Estote parati.