Un voto che colma un vuoto: all’indomani delle suppletive romane

21 Marzo 2020 Piero Chiappano
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Il Popolo della Famiglia, Piero Chiappano

Scrivo a caldo, a ridosso dell’importante risultato conseguito nel collegio Roma 1, non per discutere sulla rilevanza nazionale dello stesso, se costituisca o meno test politico per il PdF e per tutte le forze in campo, analisi che lascio ad altri, ma per evidenziare alcuni fatti, che in quanto fatti sono inoppugnabili:

1) Le 432 persone che hanno votato PdF portandolo all’1,32%, anche in conseguenza della campagna elettorale capillare e territoriale, erano perfettamente consapevoli di votare per un movimento laico di ispirazione cristiano-cattolica.

2) Per quanto non sia quantificabile l’apporto, il lavoro svolto in campagna elettorale di paziente tessitura di rapporti con realtà politiche e culturali di area affine ha messo in risalto il PdF come forza in grado di tirare il gruppo iIl gioco è finito, noi dal 20 febbraio chiediamo misure rigide “alla cinese” mentre il governo mandava il povero Mirabella in Rai con gli spot che “non è affatto facile il contagio” e Zingaretti se la rideva dicendo che la vera emergenza era l’influenza. Ora servono misure co-er-ci-ti-ve: non “raccomandazioni” ma obblighi. A partire dal lockdown degli over 65 da Roma in su e dalla chiusura definitiva dei campionati, che sarebbe misura simbolo del fatto che ora si agisce sul serio. Persino Conte, Speranza e Spadafora dovrebbero aver capito che non si può far finta di niente e mettere Juve e Inter a fare l’orchestrina sul Titanic. Servono poi tessere con orari contingentati per l’ingresso a supermercati e centri commerciali. Se non faremo questo avremo 100mila morti a fine mese: poiché la media dell’età dei deceduti è 81 anni diranno che sono morti “con” coronavirus e non “per” coronavirus. In realtà moriranno perché con quei numeri tantissimi non saranno curati. E poiché gli over 80 sono 4 milioni in Italia, 100mila in meno sono solo un’applicazione estensiva della cultura eutanasica già trionfante, a cui come Popolo della Famiglia urliamo tutta la nostra fattiva opposizione.n salita, non per farsi succhiare la ruota, ma per guidarlo.

3) Il risultato è stato conseguito presentandosi autonomi e il modesto risultato da ascrivere al centro destra rivela che chi ha votato PdF non ha fatto calcoli di “voto utile” da non sprecare, ma di voto consapevole.

4) In un collegio clamorosamente sbilanciato a sinistra (oltre il 70% del consenso se si sommano PD, movimenti comunisti, laicisti esasperati) è possibile non solo sopravvivere, ma distinguersi.

Questi dati portano a concludere che:
1) Il PdF è vivo.
2) Conduce una battaglia che comincia a essere remunerata anche sulla stampa.
3) Gli osservatori politici (e aggiungerei vaticani) non possono più ignorarlo.
4) Esiste non solo perché resiste, ma perché progetta e promuove.
5) Se corre da solo guadagna in identità e intercetta aspettative.

La peculiarità del collegio romano è quella di essere una roccaforte dell’alta borghesia radicale e radical chic, dove proposte come il reddito di maternità possono passare per populiste, passatiste e proletarie: anche interpretando il nostro consenso come forma di protesta e reazione al “classimo alla rovescia” esibito dalla moderna sinistra resta il fatto che la gente comincia a vedere il PdF come forza credibile per portare avanti un discorso politico nelle istituzioni. E lo fa nel collegio dove vota persino il Presidente del Consiglio di un governo giallo-rosso.

Il vero significato del risultato resta comunque nell’averlo conseguito in posizione autonoma. Scelta interpretata da alcuni come azzardo, da altri come bluff, ma alla fine bisogna ammettere che si tratta di strategia, quella strategia declinata a più riprese dal Presidente per cui solo evitando di dichiararsi portatori d’acqua di un corridore più forte, anche se talvolta affine su alcune posizioni, si può pensare di esistere.
Vale qui la metafora astronomica: in politica vige la legge dei rapporti di forza che si esplica attraverso la massa, come nell’universo. È la massa che crea l’orbita sulla quale viaggiano i satelliti, ma se i satelliti sono troppo deboli ecco che collassano sul pianeta principale. La politica funziona così: se ti acquatti attorno a una massa decisamente superiore finisci per cascarci dentro e scomparire come un asteroride che si polverizza nell’atmosfera. L’unica alternativa diventa allora quella di costruire una massa talmente originale che anziché sovrapporsi ad altre si distingue perché individua e colma un vuoto. Una massa di una natura alternativa. Non è questione di dimensioni, ma di peso specifico: costruendo questo si diventa determinanti. Ed è per questo che una forza politica per emergere, durare, conquistare spazio deve lavorare bene sui fondamentali e far discendere con ferrea logica e coerenza la strategia dalla sua identità, esercitando un continuo richiamo alle sue origini, ai presupposti e alle istanze che l’hanno generata definendola per quello che è. Mica per altro non esiste comunità politica che non faccia appello a miti fondatori – da Roma antica alla Resistenza – perché questi miti, oggettivati spesso attraverso determinazioni storiche precise, permettono di riportare la barra dritta in ogni tempesta, ricordando che esiste una via maestra a cui ritornare sempre nonostante gli scarti laterali che talvolta la tattica impone.

E qui, come ho ricordato recentemente in un articolo, vale la pena di osservare che la via maestra del PdF, non solo è una via stretta, ma è una via nuovo. Il PdF nasce rivoluzionario perché per prima cosa individua un nuovo terreno su cui competere e lo occupa per primo: quello valoriale della non negoziabilità della difesa della vita, della famiglia naturale, della libertà di educazione. E il vuoto che colma non è un vuoto di centro o moderato: è un vuoto antropologico. Il PdF crea un nuovo paradigma politico, riscrive categorie interpretative che inevitabilmente necessitano di tempo per essere comprese apprezzate nell’agone politico. E vale il fatto che il tentativo rasenta la portata di un impresa epocale, volendo significare in politica quello che hanno significato nella fisica le rivoluzioni di Copernico e Einstein fisica le rivoluzioni di Copernico e Einstein la storia umana. Sono esempi forti, certamente, ma usati allo scopo di chiarire che fondare un nuovo paradigma vuol dire far sì che nel proprio ambito di competenza nulla-sia-più-come-prima.

Chi si è imbarcato sulla nave del PdF deve essere consapevole che è stato attratto innanzitutto da questo tipo di novità, il cui fascino è superiore alla semplice incarnazione politica, ma che comporta conseguenze ineludibili: il PdF nasce come “altro” che si trova “altrove” (perché lì stanno il suo ossigeno e e le sue forze vitali) e vince solo se porta gli elettori in questo altrove e se vi porta i suoi contendenti (dove sono più deboli), non se si accontenta di misurarsi e paragonarsi a realtà consolida te di cui si sono già ampiamente percepiti i limiti.

La questione è cruciale: per abbracciare il PdF, interpretarlo, rappresentarlo, non basta sventolare la bandiera, bisogna vivere il nuovo paradigma. Da qui la mia reazione talvolta scomposta quando sento parlare di centro, destra, sinistra, o quando sento fare richiami a realtà del passato come la DC, perché pretendere di trovare una collocazione su un terreno politico il cui abbandono e la cui negazione costituiscono il presupposto della nascita del PdF è profondamente invalidante ed è all’origine della confusione che si può generare nella comunicazione. In qualunque misura si voglia rincorrere lo status quo si finisce per diventare dei parvenu e di mandare a monte un progetto che per sua natura è a lungo termine. Un progetto difficile, perché non richiede solo militanti motivati, ma traghettatori capaci di dialogare e persuadere. Se l’elettore non capisce il nuovo paradigma e in qualche misura non si rende conto che il vero terreno dello scontro politico verte ormai sull’antropologia, non potrà mai capire l’importanza e la ragion d’essere del PdF. Allo stesso modo, se il militante del PdF non ha introiettato profondamente questa realtà nuova, che ripeto è rivoluzionaria, non potrà essere un buon ambasciatore della nostra marca.
Detto questo, immagino già la critica: “E ma in questo modo ci riduciamo a parlare di principi astratti e di temi che non portano voti perché non interessano alla gente. Meglio occuparci di tutto, come fanno gli altri”. E no, non è così semplice. Il primo motivo è che a occuparsi di tutto si finisce per mettersi in concorrenza su un terreno dove gli altri sono già più forti e offrono garanzie, ragion per cui non vedo perché l’elettore dovrebbe cambiare a nostro favore, il secondo motivo è che una marca arriva solo se è coerente. Piuttosto la prima cosa da fare, molto prima di aggiungerne altri, è quella di imparare a trattare i nostri temi dal punto di vista dell’elettore, inaugurando uno sforzo comunicativo che è anche tecnico, forse non alla portata di tutti, ma necessario. Paradossalmente, da questa specola, la generosità e l’entusiasmo dei banchetti rischiano di ottenere l’effetto opposto, perché la comunicazione diventa soggettiva, espone alla dialettica e alla controversia persone non avvezze a questa attività, per di più con un pubblico generalista e non individuato nelle esigenze. Stesso discorso è da farsi per i social, rispetto ai quali caldeggio uno sforzo economico da parte del movimento: le incursioni massimaliste e dogmatiche di alcuni militanti su post avversari o culturalmente non allineati sono di grande e maldestra ingenuità, perché producono un’immagine radicale ed esclusiva del movimento che non tiene conto della realtà anche psicologica del corpo votante. Molto meglio una comunicazione allineata, ripetitiva e ossessiva, però patrocinanta dalla dirigenza e sponsorizzata, in modo che ci sia una redemption chiara rispetto alla penetrazione dei concetti e delle parole chiave, così da stemperare la generosità debordante dello zelo militante.Il gioco è finito, noi dal 20 febbraio chiediamo misure rigide “alla cinese” mentre il governo mandava il povero Mirabella in Rai con gli spot che “non è affatto facile il contagio” e Zingaretti se la rideva dicendo che la vera emergenza era l’influenza. Ora servono misure co-er-ci-ti-ve: non “raccomandazioni” ma obblighi. A partire dal lockdown degli over 65 da Roma in su e dalla chiusura definitiva dei campionati, che sarebbe misura simbolo del fatto che ora si agisce sul serio. Persino Conte, Speranza e Spadafora dovrebbero aver capito che non si può far finta di niente e mettere Juve e Inter a fare l’orchestrina sul Titanic. Servono poi tessere con orari contingentati per l’ingresso a supermercati e centriIl gioco è finito, noi dal 20 febbraio chiediamo misure rigide “alla cinese” mentre il governo mandava il povero Mirabella in Rai con gli spot che “non è affatto facile il contagio” e Zingaretti se la rideva dicendo che la vera emergenza era l’influenza. Ora servono misure co-er-ci-ti-ve: non “raccomandazioni” ma obblighi. A partire dal lockdown degli over 65 da Roma in su e dalla chiusura definitiva dei campionati, che sarebbe misura simbolo del fatto che ora si agisce sul serio. Persino Conte, Speranza e Spadafora dovrebbero aver capito che non si può far finta di niente e mettere Juve e Inter a fare l’orchestrina sul Titanic. Servono poi tessere con orari contingentati per l’ingresso a supermercati e centri commerciali. Se non faremo questo avremo 100mila morti a fine mese: poiché la media dell’età dei deceduti è 81 anni diranno che sono morti “con” coronavirus e non “per” coronavirus. In realtà moriranno perché con quei numeri tantissimi non saranno curati. E poiché gli over 80 sono 4 milioni in Italia, 100mila in meno sono solo un’applicazione estensiva della cultura eutanasica già trionfante, a cui come Popolo della Famiglia urliamo tutta la nostra fattiva opposizione. commerciali. Se non faremo questo avremo 100mila morti a fine mese: poiché la media dell’età dei deceduti è 81 anni diranno che sono morti “con” coronavirus e non “per” coronavirus. In realtà moriranno perché con quei numeri tantissimi non saranno curati. E poiché gli over 80 sono 4 milioni in Italia, 100mila in meno sono solo un’applicazione estensiva della cultura eutanasica già trionfante, a cui come Popolo della Famiglia urliamo tutta la nostra fattiva opposizione.

Queste ultime considerazioni mi portano da descrivere alcuni aspetti della fase aurorale della dinamica dei gruppi, argomento che voglio introdurre per identificare lo spazio operativo interno al movimento e finalizzato alla sua crescita.
Un gruppo che si costituisce in vista di un obiettivo comune deve essere valutato secondo due aspetti: la motivazione e la competenza.

Normalmente un gruppo nuovo è caratterizzato da un alto livello di motivazione e da un basso livello di competenza. Chi lo governa sfrutta positivamente la motivazione (che si traduce in uno sforzo generoso che si autogratifica) in modo che ognuno porti il massimo contributo logistico e operativo, lavorando in modo febbrile e indefesso senza badare all’orologio e alla fatica, perché le cose da fare sono sempre tante, non c’è tempo di coordinarsi, studiare, programmare. Accade tuttavia che ai primi risultati negativi la motivazione si sgonfi, perché manca la competenza non solo per conseguire i risultati, ma anche per interpretarli. Il gruppo motivato infatti soffre di un pericoloso limite: il conformismo. Un gruppo che mette prima di tutto la fede nell’obiettivo comune di cui è galvanizzato non interagisce orizzontalmente, sacrifica tutto per l’armonia che si auspica dall’alto e non organizza, capitalizza, sviluppa in modo funzionale e razionale le prerogative dei suoi componenti. Questa situazione è quella che si respira, per esempio, nella chat nazionale, che, sia chiaro e definitivo, non è il PdF, perché ne rappresenta solo una parte, ma agisce spesso nel nome di una legittimazione diretta del capo che sopravanza le capacità di analisi ed elaborazione dei singoli, annullando nel gruppo le peculiarità individuali. Il conformismo poi sviluppa abitudini inconsapevoli, la prima delle quali è il rivolgere attenzione solo all’interno, senza interrogarsi realmente su come si è percepiti al di fuori. Questa è la situazione tipica che proviamo quando cominciamo a frequentare un ambiente nuovo – che sia lavoro, svago, parrocchia – : percepiamo subito che lì vige un codice fatto di comportamenti e parole che dobbiamo apprendere per integrarci e di cui gli attori non sono consapevoli. Senonché un movimento politico non può permetterselo, perché dovrebbe sempre essere concentrato sull’esterno così da essere inclusivo e aggregante.

Per spezzare queste catene che inibiscono l’esplosione del valore intrinseco ecco che entra in gioco il secondo aspetto valutativo della dinamica dei gruppi: la competenza. Che è qualcosa di molto pratico, perché definisce una serie di caratteristiche che rendono abiti alla realizzazione di determinati compiti e si può descrivere e rilevare attraverso comportamenti agiti. Le competenze prevedono un lessico, una definizione, una categorizzazione, ma sono la chiave per interpretare le capacità “produttive” di ognuno di noi. Lavorare sulla competenza vuol dire indagare i carismi di ognuno per capire come meglio impiegarne le risorse. La somma delle competenze dei singoli allenate, sviluppate, allocate e coordinate promuove il passaggio da gruppo a squadra, procacciando nel tempo il miglioramento dei risultati. E i risultati sono una scienza, a cui si pervie ne stabilendo, dopo l’obiettivo comune e il terreno di gioco, i ruoli giusti per le per sone giuste.

Se si conviene con l’analisi si dovrà ammettere con rammarico che la cara metafora della testuggine, così pregnante sul piano motivazionale, immaginifico ed emotivo, è in realtà fuorviante. La testuggine, se da un lato coltiva l’aspetto romantico e fraterno del soldato che con lo scudo protegge il soldato vicino mentre gli esterni rendono il nucleo impenetrabile, si basa su un modello di combattimento tale per cui tutti fanno la guerra allo stesso modo, tutti hanno la medesima preparazione atletica, tutti hanno la stessa prestanza fisica e forse anche la stessa età. Condizioni totalmente diverse non solo dai modelli militari che si sono succeduti nella storia, ma più in generale dai modelli organizzativi figli della specializzazione, della tecnologia e di un costrutto sociale che cambia a una velocità spaziale. Va da sé che la politica non fa eccezione, e allora bisogna stare molto attenti ad adottare mappe concettuali e metafore che vanno a definire modelli rappresentazionali della realtà che sono già figlie di un limite interpretativo. Perché se adotto la testuggine come riferimento nego al movimento una struttura funzionale, gerarchica, specialistica e gli conferisco efficienza laddove mi limito a constatare comportamenti omogenei (tutti a volantinare, tutti a raccogliere firme, ecc.) e convenzioni di gruppo non sufficienti per crescere.

Con ciò voglio dire che in vista del Congresso le materie in discussione sono tante e non tutte si potranno trattare nella due giorni di Pomezia, ma ciò non preclude che si debba possedere una visione organica di quanto va fatto nei prossimi anni, che, credo sia chiaro per tutti, sono gli anni decisivi. Vi è una certezza: non ci sarà quantità se prima non si creerà qualità. E la qualità esige sudore, non si procaccia con uno stile da applauso, accomodante, motivante, ma con schiettezza e assertività. Quindi al di là del gioco delle parti che la politica esige per certe occasioni va messo a punto un piano che finalmente stabilisca chi sa fare cosa, definendo:
1) Una struttura operativa che non sia un riproduttore burocratico, ma un moltiplicatore di leadership e un detonatore di competenze.
2) Una struttura di comunicazione che metta al centro l’elettore e che centralizzi formalmente i messaggi in rapporto ai canali più appropriati stabilendo una ortodossia interpretativa.
3) Una struttura di formazione & sviluppo che completi il necessario e ottimo piano nozionistico con un’indagine sulle competenze a disposizione, necessaria per capire su chi investire a livello locale.

Tutto questo secondo una strategia “pull”e cioè “tirata” dall’elemento a cui si tende. Il punto uno è tirato dall’obiettivi politici che si vogliono conseguire e a loro volta risultanti da un’elaborazione strategica ufficiale, il punto due è tirato dal valore percepito dal corpo elettorale spietatamente segmentato per target, il punto tre è tirato dalle abilità necessarie per implementare sul territorio la strategia politica.
Questi sono i binari totalmente privi di alibi su cui può viaggiare il treno del PdF: quanto più saranno solidi, tanto più si viaggerà sicuri e a lungo. Ritengo fermamente che sia l’ultima occasione per lavorarci, ma sono altrettanto fermamente convinto che, anche a valle del risultato romano che considero positivo nei termini indicati all’inizio di qusto articolo, valga la pena darci dentro.
Accetto serenamente che da qui al Congresso i militanti si scatenino con ipotesi strategiche sul futuro e del resto i congressi di partito si fanno anche per questo, ma con la stessa serenità dichiaro che il lavoro sui binari tracciati sopra sia prioritario rispetto a qualunque tipo di iniziativa politica, che sia programmatica o di radicamento, il PdF voglia intraprendere, perché solo smarcando quei punti i militanti impareranno a comunicare bene e saranno guidati bene, dando linfa e futuro al movimento.